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(...) identitarie da una parte, le esigenze di rinnovamento dall'altra.

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Anzitutto:è sostenibile ancor oggi - con i progressi della dietetica e il mutamento di abitudini e di cognizioni igienico-sanitarie - che "festa" sia sempre e comunque sinonimo di abbuffata? Perché mai in un'occasione festiva si dovrebbe mangiar diversamente dal solito, ora che l'alimentazione quotidiana è diventata da noi, almeno nella media, sufficientemente ricca e variata da non obbligarci a ricordar a noi stessi ch'è festa perché arrivano in tavola della carne e dei dolci, cosa che accade - ohimè per la nostra salute - praticamente ogni giorno? La risposta a questa domanda non può non rifarsi al senso profondo della festa: che non equivale affatto al concetto di "tempo libero". La Modernità, proponendo un uso specificamente economicistico della vita e tendendo pertanto a ridurci dal ruolo di liberi cittadini a quello di produttori e/o consumatori, tende a livellare ogni giorno e ogni anno della nostra vita secondo il modello-base dell'orologio. È qui che dovrebbe innestarsi la nostra sacrosanta rivolta: all'omogeneità delle lancette, dovremmo reimparare a contrapporre i ritmi qualificativi e diversificanti fondati sulle campane e sui calendari; dovremmo rimpadronirci della diversità qualitativa del tempo. Ci sono le ore di lavoro e quelle di riposo, ma anche le ore e i giorni da dedicare a cose diverse dal produrre, dal consumare, dal guadagnare. Una delle forze dell'ebraismo, che gli ha consentito di sopravvivere a tante traversìe, è stata senza dubbio il rispetto dello shabbat: per un giorno si sospendono le attività ordinarie, ci si astiene il più possibile da qualunque attività che non sia il riposo e la preghiera. La festa non è un giorno come un altro, salvo ch'è "libero" dal lavoro. O meglio, non dovrebbe esserlo: noi lo abbiamo fatto divenire così in quanto ne abbiamo gradualmente perduto il senso sacrale, che nei paesi cattolici includeva la frequenza alle cerimonie religiose, una fruizione e una frequentazione comunitaria di spazi comuni, una diversa attenzione a se stessi (che cominciava dall'abbigliamento) e alla famiglia. Perduto tutto ciò, le domeniche sono diventate tediosi e abbrutenti giorni di ozio e di Tv, oppure - per i più giovani - di divertimento insensato, di "sballo"; e il mangiar più e meglio del solito solo un riflesso vizioso del maggior tempo libero a disposizione al posto del break feriale. Ora che tanto si parla di identità e di radicamento, si dovrebbe capire che un serio recupero identitario dovrebbe cominciare dall'abolizione della scansione livellatrice tra "tempo del lavoro" e "tempo libero" e dalla restaurazione di quella qualitativa tra "tempo ordinario" dedicato al lavoro e "tempo festivo" dedicato a se stessi, alla comunità, al senso da dare alla vita. I sistemi totalitari, nella loro aberrazione, obbligavano a dedicare le feste alla celebrazione liturgica delle loro "religioni civiche": ma l'errore è stato, dopo la loro scomparsa, il sostituire ad esse il Nulla. L'occasione per ripensare a tutto questo è qui, davanti a noi: il tempo pasquale. Il consumismo, naturalmente, c'invita a una serie di gesti e di acquisti che avrebbero un senso, se ci restasse ancora un po' di senso del Sacro: ma, dato che non ne abbiamo più, i casi sono due: o scegliere un razionalismo radicale, nel nome del quale nelle uova, nelle colombe dolci, negli agnelli di marzapane e in quelli cucinati al forno possiamo scorgere solo altrettante fonti di trigliceridi e di colesterolo; oppure mantenere sì quelle tradizioni, ma reimparando a fruirne il significato simbolico. E qui, ancora una volta, memoria e cultura ci fanno difetto. La pasqua cristiana dipende, con qualche variabile calendariale, da quella ebraica che celebra la luna piena del mese di Nisan, quello dell'ingresso nella primavera. Si tratta pertanto di una festa agricolo-pastorale che ha un senso nei paesi a clima temperato, quelli siti attorno al nostro caro vecchio mediterraneo: mano a mano che il cristianesimo si diffondeva altrove, il rapporto tra usi liturgici, tradizioni e vita consueta si faceva più problematico. È difficile spiegare a un baltico o a un centroafricano perché per pasqua si mangino uova ed agnelli. Qui, la tradizione si scontra con la riluttanza moderna ad accedere all'idea di sacrificio: e di sacrificio cruento. Ogni anno si rinnovano le polemiche e le proteste. Sembra che siano vicini a un milione i capi di bestiame (giovanissimi ovini e caprini) che ad ogni primavera arrivano da noi, soprattutto dall'Europa orientale, stivati in camions o in vagoni, lasciati per giorni senza cibo e senza acqua perché destinati alla macellazione; e che vengono per giunta uccisi in modo spesso atroce, senza alcun rispetto e senza alcuna pietà. Credo si debba al riguardo distinguere, una volta di più, fra la tradizione e le degenerazioni consumistiche. Cominciamo dall'uso di consumare l'agnello o il capretto durante il pranzo pasquale. Si tratta di ripetere in qualche modo la tradizione ebraica osservata anche da Gesù e di partecipare simbolicamente e comunitariamente a una commemorazione familiare del sacrificio del Signore, l'Agnello di Dio. Anche qui, farebbe molto bene ai cristiani farsi invitare almeno una volta da una famiglia di ebrei osservanti alla cena del Seder, l'ordine rituale familiare osservato la sera dell'inizio dell'Hag ha-Pesah: la cena rituale in cui - a ricordo della sera dell'inizio dell'esodo del popolo di Mosè dall'Egitto - si consuma il qorban, l'agnello arrostito, accompagnato dal pane azzimo matsah e dalle erbe amare maror. L'ebraismo, come le due religioni che da esso sono derivate - il cristianesimo e l'Islam - nasce in un mondo dall'ambiente duro e ostile, un mondo di deserti di sabbia e di pietre, con poca acqua e poco verde, solcato da tribù nomadi: il nomade ha difficoltà a vivere in armonia con la natura che lo circonda, non si potrebbe mai chiedergli di cibarsi di soli prodotti vegetali, di far a meno di quelli animali. Oggi, però, molti cristiani - senza dubbio con buone intenzioni - tendono a far un po' di confusione tra la pietà cristiana, un certo pacifismo approssimativo e un po' di cultura "orientale" desunta magari dal New Age: e contestano come "inumano" l'uso di consumare l'agnello pasquale. Qui bisogna distinguere tra alimentazione e rispetto per quel che si consuma e quindi per noi stessi. Sul primo punto, anche il recente catechismo della Chiesa cattolica (paragrafi 2415-18) è molto esplicito: si debbono rispettare gli animali, ma è legittimo servirsene per alimentarsi o per confezionare indumenti. È un insegnamento che si radica nel creazionismo biblico, che non ha nulla a che vedere con il panteismo: l'uomo, creato a immagine di Dio, è considerato per sua delega (come si legge nel Genesi) signore dell'universo. Chi allega per dimostrare il contrario l'esempio di Francesco d'Assisi, sbaglia: Francesco - a differenza di quel che diffusamente si pensa - amava cibarsi di carne, per quanto lo facesse nel quadro del suo ordinario regime penitenziale; né avrebbe potuto fare altrimenti perché nel suo tempo il vegetarianismo era, nell'Europa cristiana, bandiera del movimento eretico dei catari (ch'era appunto ispirato a fonti manichee, nelle quali il panteismo spiritualista imperava). Ma ciò non toglie affatto che Francesco amasse e rispettasse gli animali. Confesso comunque che, pur amando molto la carne d'agnello, se dovessi ammazzarne direttamente e personalmente uno per arrostirlo preferirei un pranzo pasquale a base di uova e formaggio. Mangiare l'agnello è un rito: e un rito è una cosa seria. È squalificante e desacralizzante mangiare un animale che, ucciso a fini di lucro, è stato sottoposto a maltrattamenti e a torture non necessarie. Nonostante i regolamenti di polizia, molti dei nostri macelli sono ancora dei Lager. È qui che la Chiesa e i cattolici dovrebbero farsi sentire: imponendo il rispetto delle leggi e impedendo la più abietta delle crudeltà, quella che si esercita a fini di lucro. Forse sarebbero opportune una legge e un marchio che garantissero il consumatore che la carne macellata ch'egli acquista proviene da macelli nei quali non solo l'igiene, ma anche i sistemi di macellazione sono stati tali da ridurre al minimo le sofferenze degli animali macellati. Questa sarebbe una buona iniziativa cattolica, al di là del radicalismo panteista-vegetariano che, in realtà, insidia la nostra tradizione. Franco Cardini

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