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Se la fantascienza non rinuncia alla passione

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Siamo ancora ai viaggi nel tempo, senza il brio, però, e le furbizie dei tre film sul «Ritorno al futuro» di Robert Zemeckis. Un po' di fantascienza c'è anche qui, ma in cifre domestiche, con l'accento soprattutto su una storia d'amore. Alla base, infatti, c'è un romanzo non a caso intitolato «La moglie dell'uomo che viaggiava nel tempo» riscritto per il cinema da quel Bruce Joel Rubin che su climi analoghi si era già cimentato con «Ghost». Qui, però, il morto che ritorna a chiacchierare con la moglie c'è solo alla fine, prima c'è un tale Henry che scopriamo affetto da una malattia genetica (sic!) in base alla quale passa senza preavviso da una vita all'altra, viaggiando appunto nel tempo. Questo non gli impedisce di innamorarsi di Clare e di sposarla, lasciandola però più d'una volta sola perché ricomincia i suoi viaggi. Finché gli nascerà una bambina da cui sa di doversi separare perché, quando compirà cinque anni, lui dovrà morire. Non mancherà comunque, dopo morto, un'ulteriore visitina alla moglie, con l'occasione di uno di quei tanti viaggi che, come si è autorizzati a pensare, potrebbero anche non finir mai. Promettendo l'immortalità. In «Ghost» Rubin era stato più fine arrivando a commuovere con un amore in cui faceva intervenire con delicata, commovente misura, il fantasma di un marito. Qui si ripete, divaga, nega il sospetto del mistero spiegato con quella buffa ipotesi di malattia genetica e punta quasi tutte le sue carte sulla storia d'amore. Imitato e seguito dalla regia di un poco noto Robert Schwentke non sempre pronta a sveltire l'azione e a darle quegli accenti quotidiani cui invece vorrebbe tendere. Comunque, volendo, si può seguire, solo un po' imbarazzati dal fatto che, anziché privilegiare la fantascienza, con cui tutto può giustificarsi, la si sia sostituita con temi e toni vagamente irreali difficili da accettarsi fino in fondo. I protagonisti sono Rachel McAdams e Eric Bana. Interessano poco.

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