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Mino Martinazzoli,

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Viaggio.Forse non esiste parola migliore per raccontare Mino Martinazzoli. Un viaggio, quello da Orzinuovi - suo paese natale - a Brescia dove frequenta il liceo classico, è quello che segna gli anni di una giovinezza più attenta allo studio che alla politica. Un viaggio, da Roma a Orzinuovi, gli permette di incontrare l'allora presidente del Consiglio Aldo Moro. Personalità che segnerà in maniera profonda il suo pensiero e il suo agire futuro. E poi ancora da Brescia a Roma per il debutto da senatore nei palazzi del potere che lo vedranno più volte ministro, ma anche ultimo segretario della Dc. Fino al ritorno a casa, perché, come scrive concludendo la sua biografia scritta con Annachiara Valle, «in verità, alla fine, si viaggia solo per tornare». «Uno strano democristiano» è il titolo di questo volume che, in fondo, rappresenta un viaggio attraverso l'Italia degli ultimi 60 anni. Raccontata da uno «spettatore» che ben presto si è trasformato in un «protagonista». Martinazzoli mette in ordine i ricordi, non nasconde i dubbi, le paure, non si lascia sfuggire l'occasione di dire la sua su ciò che sta accadendo oggi nel nostro Paese. Anche perché, molti dei temi attorno a cui ruota il dibattito politico di questi anni, hanno radici antiche. Così, sfogliando questa biografia, si scopre che fu lui uno dei primi a lavorare, senza successo, per una regolamentazione delle intercettazioni telefoniche. O ancora che, da ministro della Giustizia, si trovò ad affrontare il problema del sovraffollamento delle carceri e di come garantire sicurezza e rispetto dei diritti umani. Mentre vanamente cercò di occuparsi della separazione delle carriere tra pubblici ministeri e magistrati giudicanti («continuo a ritenere che sarebbe una buona cosa in una situazione fisiologica»). Ma Martinazzoli racconta da «protagonista» anche molti dei fatti di cronaca che hanno segnato il nostro Paese. Presidente della commissione di indagine sulla scandalo Lockheed (corruzione legata all'acquisto di aerei militari) che portò, dopo un lungo stillicidio, alle dimissioni del Capo dello Stato Giovanni Leone. Ministro della Giustizia nei giorni che portarono all'inizio del maxiprocesso alla mafia e della morte di Michele Sindona («la mia idea è che sia trattato davvero di suicidio»). Ministro della Difesa durante il caso Ustica («qualcuno pagò anche se non so se ha pagato un conto - peraltro irrisorio - che doveva saldare o se è stato vittima di qualcosa»). Segretario della Dc negli anni terribili di Tangentopoli («non credo che sia stata questa la causa determinante dell'implosione del partito. Piuttosto ne è stata la modalità»). C'è però un fatto che, forse più di altri, segna la vita di Martinazzoli: la morte di Moro. In quel 9 maggio del 1978 questo «strano democristiano» vede la cesura tra ciò che poteva essere e ciò che è stato. «Possiamo dire che quel sogno dell'alternanza della democrazia compiuta oggi è raggiunta - scrive -, ma è certamente una cosa diversa da quella che Moro immaginava. Con lui avremmo raggiunto una democrazia dell'alternanza attraverso la politica, senza di lui l'abbiamo raggiunta attraverso l'antipolitica. È, cioè, un'alternanza senza partecipazione, con l'emergere di assetti partitici che più che rappresentare si autorappresentano». Forse la «stranezza» di Martinazzoli sta proprio in questo. Nell'aver creduto, nonostante la morte di Moro, che quella democrazia dell'alternanza potesse essere raggiunta ancora attraverso la politica. Nell'aver creduto che, di fronte ai grandi cambiamenti della storia (primo fra tutti il crollo del muro di Berlino), la Dc potesse essere in grado di cambiare, di tornare ad essere un partito più interessato al proprio progetto che al potere. Un vero Partito Popolare, come volle chiamarlo rinunciando, per sempre, alla sigla voluta da Alcide De Gasperi. Di continuare a credere che «tornerà un tempo meno inclemente per questo seme della nostra storia che non può essere diventato infecondo. Dovranno passare molte cose. Dovranno arrivare delle generazioni che risentano questa cose come cose nuove. Le risentano, perché la storia va così e non si inventa mai niente».

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