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A Venezia trionfa il pacifismo Leone d'Oro a "Lebanon"

Actor Yoav Donat e Samuel Maoz con il Leone d'Oro per Lebanon alla 66ma Mostra del Cinema di Venezia

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Venezia - Nel segno della democrazia, della pace e della libertà, il fil rouge che ha unito i vincitori di questa 66esima edizione. A cominciare dal Leone d'Oro dato al claustrofobico "Lebanon" di Samuel Maoz, dove la guerra del Libano (1982) è vista (e commentata) in un carro armato da un gruppo di militari (quattro ventenni impauriti) che si ritrovano schiacciati in una trappola mortale e azionano una macchina assassina.   Il regista ha fatto davvero la guerra in Libano come artigliere e tornando la madre ha abbracciato un figlio sano e salvo, che era in realtà "un guscio vuoto", ha ricordato il cineasta 47enne di Tel Aviv. Subito sulla stampa israeliana sono però fioccate le critiche, innescate dall'autore teatrale Shmuel Hasfari, intellettuale di sinistra, che ha definito "parassiti disgustosi e merde" quegli attori israeliani (Ittai Tiran, Oshri Cohen, Shmuel Moshonov e Yoav Donat) che, dopo aver evitato il servizio militare (tre anni obbligatori), si fanno una carriera internazionale proprio interpretando la parte di soldati impegnati in battaglia. Il film, distribuito da Bim, per la sua tematica sembra perfetto per il mercato americano e per una candidatura agli Oscar. Anche il Leone d'Argento per la migliore regia è stato vinto da un'opera che esorta il mondo (iraniano) alla democrazia: in arrivo dal festival di Toronto, hanno colpito tutti le iraniane di "Women without a men" di Shirin Neshat, sugli sconvolgimenti politici dell'Iran del '53. Nella storia, sullo sfondo tumultuoso del colpo di stato tramato dalla Cia, i destini di quattro donne convergono ritrovando, in un simbolico realismo magico, indipendenza, conforto e amicizia. Intensa e profonda la riflessione della brava regista iraniana (al suo esordio) su un momento cruciale del Paese, che ha avuto come conseguenza la rivoluzione islamica e ha poi portato al tormentato Iran di oggi. Ma la vera sorpresa della Mostra è forse racchiusa nel terzo premio (quello Speciale della Giuria) che, allontanandosi dal dramma delle guerre, è andato alla divertente commedia "Soul Kitchen" del turco tedesco Fatih Akin. Tra ironia e realismo contemporaneo, emerge dalla pellicola la vita di due simpatici fratelli che ad Amburgo cercano, con pochi soldi e tra mille difficoltà, di far decollare il loro delizioso ristorante. Unica italiana premiata, Jasmine Trinca, protagonista (non sempre convincente) nel film di Michele Placido "Il grande sogno" (Medusa): a lei è andato il Mastroianni, premio per la migliore interpretazione di un'attrice/attore emergente. Un pizzico di amarezza per Margherita Buy, straordinaria interprete de "Lo spazio bianco" di Francesca Comencini, che meritava senza dubbio la Coppa Volpi, vinta invece dalla russa Ksenia Rappoport per il thriller psicologico dell'esordiente Giuseppe Capotondi, con Filippo Timi. Applaudita nel consenso generale la Coppa Volpi per l'interpretazione maschile di Colin Firth, romantico professore gay inglese, nel film "A single man" dello stilista omosessuale Tom Ford. Osella per la scenografia a Sylvie Olivè per "Mr. Nobody" di Van Dormael e Osella per la sceneggiatura a "Life during wartime" di Todd Solondz (distribuito da Archibald), cinico ritratto della società americana e sequel ideale del suo vecchio "Happiness", che riapre la questione del perdono e dei suoi limiti in una serie di storie dove spiccano un padre pedofilo pentito, una moglie ferita e ansiosa, tre sorelle che non comunicano più tra loro e un bambino terrorizzato dall'idea di diventare pedofilo come il padre.

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