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L'inglesina partita troppo presto

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Perchésoltanto allora l'estate era veramente tale, una sospensione del tempo, una terra di nessuno, uno spazio da riempire di sogni e di aspettative, una stagione felice e torbida, lunghissima, che estendeva i suoi confini oltre quelli del calendario, partendo prima del 21 giugno, alla chiusura delle scuole, e arrivando sino al 1 ottobre, quando le scuole riaprivano. Ottenevo negli studi risultati molto buoni, dunque godevo di una totale libertà d'azione estiva, ebbi presto le chiavi di casa e la possibilità di rientrare a qualunque ora. Non avevo però la fisionomia del tipico primo della classe. Ero circondato da moltissimi amici, e, vincendo la mia naturale malinconia e un certo disprezzo per la società di massa, tra di loro diventavo scherzoso, cameratesco, sboccato come allora si era soltanto nell'adolescenza. Abitando in Riviera, l'estate si viveva soprattutto di notte. Non esistevano allora le megadiscoteche, la droga non era ancora arrivata a falciare vittime, le notti estive erano soltanto musica, compagnia, ballo, baci. In una cittadina vicina a quella dove abitavo, un locale da ballo all'aperto in mezzo a un giardino in riva al mare si chiamava molto opportunamente "Paradiso". Chi lo ha frequentato in quegli anni, sa bene che cosa è la dolcezza naturale, innocente, fervida, un po' volgare della giovinezza e del vivere. L'estate del 1963 cominciò con un contrattempo. Dovetti partire per la Sicilia con mio padre, mia madre e mio fratellino per far visita ai parenti di laggiù: una intera via di Motta Sant'Anastasia, vicino a Catania, era abitata da figli e nipoti del patriarca, Giuseppe Conte, nonno Peppe, appartenente alla corporazione dei Mastri, uomo su cui erano fiorite leggende riguardanti la forza fisica, il coraggio, l'audacia implacabile. Ma io ero allora in un'età in cui ci si ribella a ogni logica di appartenenza familiare. Vedevo quelle piazze di paese popolate da uomini soli, donne velate i cui volti balenavano appena dietro gli scuri delle finestre, e rimpiangevo con rabbia le mie spiagge piene di bikini, le mie notti piene di musica e il mio Paradiso pieno di ragazze inglesi e svedesi con la loro smodata voglia di ridere. Non era quello il modo migliore per apprezzare le mie radici. Soltanto il teatro greco di Siracusa riuscì a commuovermi, e la commozione fu tutta letteraria, perché già allora amavo la letteratura di un amore terribile. Durò un mese quel soggiorno. Il caldo, quella campagna riarsa e tutta stoppie, la sagoma minacciosa dell'Etna tra i vapori, la solitudine mi soffocavano come se fossi nelle mani di Polifemo. Finalmente si tornò in Liguria. Due mattinate di spiaggia per prendere un po' di colore al volto rimasto orribilmente pallido, un po' di prove con una sigaretta infilata in un bocchino per sembrare un po' più grande e vissuto. Ed eccomi, ero di nuovo alla conquista della notte. Era vitalità pura quel partire con gli amici, su pullman di linea, qualcuno in vespa, i più spericolati in "vispetta", un motorino che sembrava un giocattolo, per andare a cercare avventure amorose sognate tutto l'inverno, fantasticate sui banchi di scuola tra una lezione e l'altra, desiderate con allegria antica, con disarmante leggerezza. Era vitalità, incoscienza, stupidità, farneticazione, gioia. Tutto quello che un adolescente di oggi, chiuso nella corazza elettronica delle sue play station e dei suoi telefonini, non riesce neppure più a immaginare. L'estate del 1963 si concluse nel migliore dei modi, o nel più straziante, dipende. Sulla pista da ballo del "Paradiso", tra tanti twist, in cui mi arrangiavo, cha cha cha, in cui facevo pena, e canzoni struggenti come "Amore fermati" dell'impagabile Fred Bongusto, conobbi una ragazza di Nottingham e uscii con lei. Poi lei partì, come era nell'ordine delle cose. La notte del 30 settembre con gli amici eravamo ancora a ballare, per trascinare un po' di quell'estate sin sulla porta del liceo, che si sarebbe aperta l'indomani mattina. Ma io ricordo che ero piuttosto triste.

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