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1940, missione segreta a Rio

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Cistiamo abituando ai nostri milioni come alle mille lire che uno può avere nel portafoglio, e ci pigliamo delle confidenze con loro. Talché quando dopo il lunch compiamo il rituale gesto di toccare le valige sotto il letto per accertarci della loro presenza, propongo di aprirle (cosa che non abbiamo fatto da che siamo partiti) per esser ben sicuri che i denari siano sempre lì e non surrettiziamente sostituiti con vecchi giornali. I sacchi sono al loro posto e intatti, e l'improvvisa preoccupazione scompare dagli occhi prudenti di Momo. Abbiamo scoperto un nuovo gioco da fare in due, chinese chequers, di cui abbiamo trovato e sequestrato gli strumenti nel bar. Facciamo innumerevoli partite e mi rimangio un po' delle mie perdite nei confronti di Momo. Ci andiamo assuefacendo alla monotonia delle nostre giornate e alla responsabilità che portiamo su di noi e che potremmo deporre solo il 1° dicembre. Ancora una notte d'ansia, quella fra il 2 e il 26 che precederà la fermata a Pernambuco. «È l'ultima occasione per fare il colpo», conferma Momo. Anche per noi, mi viene fatto di dire, sarebbe l'ultima occasione. Ridiamo come a un'idea assurda (ma non inattuabile). Nessuno ci conosce a Pernambuco; non ci deve essere neanche un console. Col passaporto diplomatico, munito di regolare visto per il soggiorno in Brasile, potremmo certo scendere senza fastidi “e senza aprire le nostre valige”. Avremmo quattro o cinque giorni prima che a Rio comincino a preoccuparsi del nostro mancato arrivo, e dunque per proseguire per Belo Horizonte, San Paolo, o Puerto Alegre. I mezzi non ci mancherebbero. Supponiamo che l'ambasciata ci faccia ricercare dalla polizia e che la polizia ci rintracci. Noi non sappiamo niente dei milioni, non li abbiamo mai visti, è una calunnia fascista per impedirci di fare quello che intendiamo fare: chiedere asilo politico (il Brasile non è forse il paese più indicato, ma passi). Pensiamo a Numero Due a Washington, che ci ha prescelti come elementi sicuri. Sì, sarebbe un bellissimo scherzo, e ci ridiamo sopra (ma un po' sforzatamente). 24 novembre – Che cosa valgono tre milioni di dollari? Perché tre milioni? Diciamo un milione e mezzo. In milreis non so, certo devono fare una somma enorme. Potrei comprare un grattacielo a San Paolo; forse no, ma una fazenda coltivata a caffè. I capitali investiti in Brasile rendono il quindici, venti per cento l'anno. Ogni anno sarebbero venti o trentamila dollari. Abbastanza per comprare tutta la polizia. Ma la polizia che cosa avrebbe da dire? Io non ho firmato nessuna ricevuta; come potrebbero provare che i milioni non sono miei? Anche l'fbi che convenienza avrebbe a che i milioni finiscano all'ambasciata a Rio? E se all'arrivo a Rio i brasiliani ce li sequestrano come è accaduto in Messico? Se le cose volgessero al peggio, potremmo sostenere che abbiamo tentato il colpo per evitare il sequestro. Avvolgendo questi e altri pensieri nel torpore antelucano, apro gli occhi e guardo Momo nel letto accanto. È sveglio e fissa un punto sul muro di fronte come chi è intento a pensare. Medita con le braccia conserte, e una ruga gli incide la fronte tra le sopracciglia. Di che sorta siano i suoi pensieri è difficile dire: forse simili ai miei. Quando incrociamo lo sguardo cerco nel suo il lampo di colpevolezza che temo egli legga nel mio. Trasciniamo con svogliatezza la mattinata, sbattendola di qua e di là come un cencio bagnato. Stiamo avvicinandoci all'equatore e il caldo è fortemente aumentato. Traversiamo quel tratto di oceano ove si riversano le acque delle Amazzoni che gli danno colore di fanghiglia. Uccelli terrestri raggiungono la nave e la seguono per lunga pezza. Il continente non è lontano. Nel pomeriggio festa a bordo per il battesimo di coloro che non hanno mai varcato l'equatore; io sono delegato a rappresentare la nostra coppia. Scherzi di vario genere ci vengono inflitti dai marinai camuffati da Nettuno e sua corte. Peccato che anche Momo non sia là: non c'è persona più indifesa di un uomo fortemente miope cui sono stati tolti gli occhiali. Sbarcare in due a Pernambuco vuol dire fare a metà dei tre milioni. D'altra parte è inevitabile, basta un minuto di riflessione per accorgersi che nessuna altra soluzione è possibile. Se quindi volessimo fare qualcosa bisognerebbe parlarne. Meglio rinviare a domani.

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