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U2 tra cielo e terra

Bono Vox

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L'«artiglio» svetta mostruoso, con le sue quattro dita da incubo alieno, fino a un'altezza di cinquanta metri, ben oltre il secondo anello del Camp Nou. Il palco degli U2 è un monumento al gigantismo del rock, un arco di trionfo ipertecnologico per far decollare l'ego-trip delle rockstar. «Una stazione spaziale costruita qui nella capitale del surrealismo», spiega Bono. E il collegamento tra cielo e terra arriva davvero, a un certo punto della notte, quando lui ricorda lo sbarco sulla Luna, quarant'anni fa, prima che sui maxischermi appaiano in diretta gli astronauti della Iss, in orbita lassù. In mano tengono dei cartelli in cui c'è scritto un verso del gruppo: "Il futuro ha bisogno di un grande bacio". Il cantante convince gli space-men ad aderire all'Unicef, poi chiede se il mondo appaia verde, e come sia Barcellona vista da quell'altezza. Dall'interno dello stadio è meravigliosa, una discoteca dell'anima ai bordi di una vertigine di immagini, disegni di luce e sogni in uno scheletro di metallo. C'è voluto un mese per montarla, questa colossale struttura: 120 camion ne trasportano i pezzi in duplice copia nelle 44 città che ospiteranno il "360° tour", atteso il 7 e 8 luglio a Milano. Un'operazione da 106 milioni di euro, in qualche modo un "altro" dei tanti punti di non ritorno nella carriera ultratrentennale della band irlandese. Spesso Bono se l'è cavata sostenendo che certi allestimenti oversize fossero un ironico ammiccamento alla mitologia pop, dove tutto è fuori misura, allucinatorio, divinizzato. Stavolta dovrà fare uno sforzo supplementare per mantenersi credibile, e non solo come artista. Da tempo si è ritagliato un ruolo come salvatore del pianeta, e quando verrà a cantare in Italia, in pieno G8, non mancherà di ricordare che il nostro Paese ha disatteso gli impegni per la cancellazione del debito nei confronti del terzo mondo. Il concerto gli serve anche a questo, a sostenere la campagna "One" attraverso un discorso registrato dell'arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, così come (durante un'evocativa "Walk on") a ricordare la vicenda del premio Nobel birmano Aung San Suu Kyi, costretta agli arresti dal regime di Myanmar. Chiede ai fans di indossare maschere di cartone della detenuta, di identificarsi in lei. Ne fa a salire a decine sulla pedana circolare, come in un corteo di protesta che taglia la notte come un coltello. Ma stanotte il suo compito è cantare, e convincere i novantamila del pubblico di questo esordio mondiale che lui è una star con qualche ruga in faccia, ma con l'anima a posto e il corpo tonico. Quanto al portafoglio, a Dublino non sono troppo contenti che gli U2 abbiano esportato i capitali in Olanda: gliela faranno pagare opponendo qualche cavillo alla costruzione del leggendario grattacielo di cristallo della band. E per una delle classiche beffe del destino di cui è disseminata la storia del rock, gli tocca pure esibirsi alla vigilia del funerale di Michael Jackson, l'altra grande icona degli anni Ottanta. Si capisce che ne farebbe volentieri a meno: il re del pop era vulnerabile, plastificato, misterioso, solitario, imperscutabile. Bono è impegnato, solidale, messianico. Un istrione. L'americano si è disintegrato, è imploso, ha detto addio al mondo: l'irlandese è smisuratamente vivo, linguacciuto, al centro della scena. Ma non può evitare l'omaggio allo scomparso, che arriva nella prima parte dello show, quando alla fine di "Angel of Harlem" (pensata per altre tragiche divinità della musica nera, Billie Holiday e John Coltrane), suona l'armonica e poi intona "Man in the mirror" e "Don't stop till you get enough": citazioni appropriate, perché davvero Michael ha attraversato lo specchio ed è sparito, come l'antinarciso che si sottrae alla follia da lui stesso creata, quando è stufo di ballare. Naturalmente, lo spettacolo degli U2 è a dir poco sensazionale, né avrebbe potuto essere diversamente date le lusinghiere premesse del nuovo cd. I magnifici quattro girano a mille, con un suono a dir poco poderoso, ma non privo all'occorrenza di sfumature, come se in ogni canzone, anche quelle eseguite diecimila volte, venisse scoperta una diramazione segreta, una vitalissima linfa per ricaricare il serbatoio dell'ispirazione. Una partenza ammazzasette con il meglio del materiale recente, in sequenza: la potenza impressionante di "Breathe", "No line on the horizon", "Get on your boots" e la sensuale "Magnificent" preludono al recupero dei classici: ecco "Beautiful day", quell'inno irrinunciabile dell'inquietudine spirituale che è "I still haven't found", e poi un'intrigante versione di "In a little while". Una performance da schiacciasassi: la conturbante "Unknown caller" e la commovente "The unforgettable fire" (un giro sulla giostra dell'innocenza perduta), poi il labirinto di "City of blinding lights", l'ipnosi rock di "Vertigo", e lo stravolgimento di "Crazy tonight" (l'esibizione di stanotte diventerà un video). Ecco, via via, la rabbia immarcescibile di "Sunday bloody sunday", che apre il trittico politico verso "Pride" e "MLK", entrambe in tributo a Martin Luther King. Lo smarrimento epifanico di "Where the streets have no name" prepara per la lacerante catarsi sentimentale di "One". Poi i bis. Il modernismo di "Ultra violet", l'immensità di una serenata perdente come "With or without you". Quando arriva l'elegia di "Moment of surrender" Bono ha il mondo ai suoi piedi. Anzi, sotto l'artiglio.

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