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Addio Dahrendorf, lord della filosofia

Ralf Dahrendorf

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Non era un uomo facile: anzi, sotto la sua signorile pàtina di simpatia, era un gran rompiscatole, un bastiancontrario. Ma, perdinci, uno studioso di gran classe, un intellettuale come ce ne sono sempre stati pochi, un autentico europeo. Ralf Dahrendorf, che definire «sociologo» o «politico» è davvero riduttivo, se n'è andato a 80 anni. Non è certo un'età verde: ma è ormai comune sensazione che lasciarci a quell'età, e per giunta ancora lucido e attivo, vuol dire lasciarci presto. Era nato in Germania nel 1929 e aveva conosciuto, ragazzo, l'avvento del nazionalsocialismo. Ha raccontato in un suo bel libro, «Oltre le frontiere. Frammenti di vita» (Laterza, 2004) quella sua esperienza, e le sue precocissime prove di resistenza. Per la sua patria aveva una specie di odio-amore, di quelli che di solito si provano per la passione della nostra vita se essa ci tradisce. Ma la sua definitiva maturazione, stando a quanto egli stesso ci dice, fu raggiunta verso al fine degli anni Cinquanta, quando non aveva ancora trent'anni. I suoi primi libri di successo appartengono a poco dopo: «Classi e conflitto di classe nella società industriale» (1963), «Homo sociologicus» (1964), «Conflitto e libertà» (1972). Verso la fine degli anni Sessanta si decise a impegnarsi in politica, e lo fece con successo, alla grande: parlamentare tra 1969 e 1970 per la Freie Demokratische Partei, non abbandonò mai la sponda di un liberalismo flessibile, aperto al nuovo, più liberalsocialista in fondo che liberalconservatore. I suoi studi sociologici, ricchi di un ampio respiro storico, insistono sull'idea, ripresa da Max Weber, che la società risulta polarizzata tra coloro che hanno autorità e coloro che non ne hanno; e che il potere, al di là di troppo ardite astrazioni, è fondamentalmente la capacità di costringere gli altri a fare la propria volontà. Era una visione dura, lucida, di stampo machiavelliano, senza concessioni a sogni e ad illusioni: Dahrendorf si accampava in una sfera di confine tra la sociologia e la scienza della politica e sapeva che, in quell'àmbito di studi e di ricerche, si dev'essere scrupolosamente realistici. Molto critico nei confronti dei poteri pubblici e statali, Dahrendorf era un europeista convinto, ma anche in quel campo teneva alle distinzioni e alle articolazioni di giudizio. In fondo, era un «europeista all'inglese», convinto che non si dovesse troppo sacrificare la specificità nazionale sull'altare di un eventuale centralismo sovrastatale. E l'Inghilterra lo premiò, difatti, accordandogli nel 1988 la cittadinanza e in seguito addirittura il titolo di lord. Era stato un fautore convinto della fondazione della comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio e della Comunità Economica Europea: dal 1970 al 1974 aveva fatto parte della Commissione Europea di Bruxelles. Ma, gradualmente, si era ricreduto sullo sviluppo dell'Unione Europea fino a poter essere considerato un «euroscettico». Non aveva apprezzato la nascita dell'euro, che a suo avviso avrebbe diviso gli europei invece che unirli e avrebbe avuto più controindicazioni che vantaggi; e criticava con molta durezza quella che gli sembrava un'involuzione burocratica e sostanzialmente antidemocratica delle istituzioni di Bruxelles e di Strasburgo. Non aveva apprezzato la scelta di Maastricht e ancor meno il tentativo di legittimare una Costituzione europea, della quale - ancora una volta, britannicamente - non vedeva il bisogno. Negli ultimi tempi, aveva sostenuto la necessità di «risposte nazionali» alla crisi globale incipiente e addirittura l'opportunità di qualche moderata forma di «nazionalismo economico». Ormai avanti con gli anni, riteneva l'Europa non del tutto necessaria e soprattutto non sufficiente: e pensava alla governance mondiale. Era un grande difensore delle diversità e delle libertà. Si poteva essere in disaccordo con lui. Era impossibile non ammirarlo.

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