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Il bello della poesia: essere incomprensibile

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È possibile parlare - per quanto riguarda la poesia americana del '900 - di una contrapposizione tra due tensioni diverse, che potrei sintetizzare con la formula "poeti confessionali" vs. "poeti sperimentali"? A differenza dell'Italia, però, dove spesso i poli estremi di "tradizione" e "sperimentalismo" si sono fronteggiati in maniera ideologica, senza capirsi e contaminarsi a vicenda, a me sembra che la poesia americana, nonostante linee e differenze anche radicali, abbia saputo trovare forme espressive ibride, per cui il confine tra la "confessione" e la "sperimentazione" è spesso confuso e labile.   Penso al caso del poeta "laureato" John Ashbery, nato a Rochester, nello stato di New York, nel 1927. La sua poesia, che in Italia fu fatta conoscere da Garzanti nel 1983, quando Aldo Busi tradusse (male) «Autoritratto in uno specchio convesso», è adesso ampiamente disponibile grazie a un'antologia curata dallo stesso autore insieme a Damiano Abeni e Joseph Harrison, e intitolata «Un mondo che non può essere migliore. Poesie scelte 1956-2007» (Luca Sossella editore, 309 pagine, 15,00 euro, traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan, introduzione di Joseph Harrison).   La poesia di Ashbery è un esempio straordinario di versificazione a metà strada tra un tono "colloquiale" e un surrealismo armonioso epperò ostico, ai limiti dell'incomprensibilità. La poesia - per Ashbery - significa e si giustifica in sé, al di là di ogni rimando al "fuori"; eppure, nonostante un'architettura "altra", ogni verso sembra necessario, miracoloso nel suo splendore di incomprensibile bellezza. Non so chi, negli anni '70, parlò di "massima precisione nel massimo dell'arbitrio", ma questa bellissima proposizione mi torna assai utile per suggerire qualcosa della ineffabile poesia di Ashbery. Quando nel 1956 uscì Howl di Allen Ginsberg, Ashbery pubblicò il suo primo libro di versi, «Some Trees». Era, «Some Trees», nonostante gli echi di Auden, che pure lo introdusse con imperizia - e nonostante l'estetica wildiana dell'arte senza doveri - qualcosa di nuovo, che spezzava fortemente la linea "confessionale" che, da Wordsworth, arrivava fino a Lowell. Sarebbe stato bello se anche in Italia fosse sorta - dalla fine degli anni '50 in poi - una poesia sperimentale come quella di Ashbery: una poesia che sa citare senza arroganza o nichilismo, che sa sognare senza utopie irreali, che sa allargare il campo semantico della poesia senza per forza pretendere di allargare il campo semantico della politica o del "sistema". Una poesia armoniosa, ampia, generosa, plurima, che davvero sa reinventare lo statuto poetico, cioè il senso della poesia, che è sempre da rinnovare. E anche se Ashbery non è un poeta narrativo o "confessionale", l'altrove poetico - ma la vera poesia è sempre un "altrove" - egli sa afferrarlo con cadenze narrative e colloquiali "sensuali", sia pure di una narratività che tende a un sogno vigile, a un discorso inafferrabile e fraterno. Spesso queste belle poesie di Ashbery non si capiscono, ma non si può mai fare a meno di leggerle fino in fondo. Dalla prima all'ultima pagina questo libro è una continua sorpresa stilistica. Spero solo che in Italia - oltre al silenzio che divora drammaticamente opere cruciali di poesia come questa - un mondo che non può essere migliore non venga accaparrato dai soliti avanguardisti, rivoluzionari per assenza di cultura e di sentimenti.

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