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Pamela Villoresi dipinge i tre quadri di Marlene Dietrich

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Tre capitoli sintetizzano l'avventura umana di un mito ineguagliabile nello spettacolo «Marlene», frutto della preziosa e alata penna di Giuseppe Manfridi per il protagonismo femminile di Pamela Villoresi, che da stasera al 17 maggio al Quirino si misura con un'icona contraddittoria e anticonformista, recitando insieme a Orso Maria Guerrini, David Sebasti, Silvia Budrio e Cristina Sebastianelli, per la regia di Maurizio Panici. Il primo quadro è ambientato a Londra, nel 1954, quando Hollywood sembra aver voltato le spalle all'attrice e il teatro le si propone come un'importante occasione di riscatto artistico. È la mattina del giorno in cui Marlene, cinquantenne, dovrà debuttare con un fastoso recital al Cafè de Paris e si sviluppa il confronto tra la diva e il suo grande pigmalione, Joseph Von Sternberg, regista de «L'Angelo azzurro», insieme al quale la donna rivivrà l'incredibile provino in cui lui la scelse per la parte di Lola. Il secondo momento corrisponde a un pomeriggio di sei anni dopo, nel 1960. Nel camerino di un teatro di Berlino, a poche ore da un concerto, si rivive il rapporto con il musicista Burt Bacharach, a quell'epoca trentenne di grande avvenenza e ancora semisconosciuto, ma dal talento assai percepibile: fra i due vibra una potente corrente erotica. Il terzo passaggio conduce nel 1975, a Toronto, con un faccia a faccia impietoso, sebbene ironico e divertente, fra una Dietrich, ormai logorata e fragile, e sua figlia Kater, creatura costretta a una vita defilata e sempre rimessa al servizio di una madre tanto ingombrante. A chiudere la commedia sarà un colpo di scena decisivo con un Mefistofele a cui Marlene si offre come a un seducente e pericoloso Faust. Solitaria e fatale, intelligente e autonoma, con una forte carica sensuale e una fascinosa ambivalenza di genere, una donna dalla storia pubblica gloriosa e dal privato tragico torna a vivere anche grazie alle canzoni che ricompongono pienamente il quadro di un'epoca dolorosa, segnata dalla guerra. Domina su tutte la notissima «Lili Marlene». Una danza di morte di strindberghiana memoria è costruita in uno spazio mentale che soltanto uno strumento di profonda complicità emotiva come il teatro permette di condividere con gli spettatori.

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