Cerca
Logo
Cerca
Edicola digitale
+

«La mia odissea tra etica e arte»

Esplora:
default_image

  • a
  • a
  • a

Cisi potrebbe perdere negli occhi blu di Claudio Magris, profondi come il mare della sua Trieste, irrequieti e tempestosi ma spesso illuminati dalla dolcezza dei suoi sorrisi. Quelli di un ragazzo maturo, che proprio ieri ha compiuto 70 anni, nel riserbo che gli è congeniale, senza clamori, su un'«isola omerica». Lo scrittore e germanista, più volte candidato al Nobel per la letteratura e autore di capolavori come «Danubio», sarà poi festeggiato sabato prossimo a Pordenone, dove il sindaco, Sergio Bolzonello, gli consegnerà il sigillo della città, perché la sua famiglia è originaria di Malnisio di Montereale Valcellina. Forum edizioni presenterà poi «Argonauta», un libro sul personaggio Magris scritto a più mani, da amici, docenti e letterati, come Paul Auster, Alvaro de la Rica, Cesar Munoz Molina, Gian Luigi Beccaria e tanti altri. Mentre il fotografo Danilo De Marco, che vive tra il Friuli e Parigi, gli ha dedicato una mostra di 50 scatti. Magris, il suo ultimo libro, «Alfabeti», raccolta di molti dei suoi articoli, è una sorta di autobiografia intellettuale? «Forse sì. Uno scrittore si svela attraverso i suoi libri, ma tanta parte della sua personalità più profonda esce fuori quando racconta le proprie letture, quelle di una vita, che lo hanno formato, lo hanno spinto verso la fantasia e, nello stesso tempo, lo hanno aperto al mondo». Lei da bambino cosa leggeva? «Divoravo tutto. Mi piacevano le parole difficili, mi incuriosivano i trattati, soprattutto quelli tra Francia e Spagna: li leggevo dall'enciclopedia, li copiavo e la mia fantasia galoppava, mi perdevo in quelle parole incomprensibili che a me rievocavano mondi lontani, sconosciuti e per questo affascinanti. Mi appassionavano anche le voci degli animali: copiavo, per esempio, la definizione di tricheco e poi ci aggiungevo una storiella inventata, del genere "Il tricheco contro l'Orso polare"». Nel saggio, lei ricorda grandi capolavori «sgradevoli», che contengono qualcosa di urtante, e altri straordinari: è il gioco delle contraddizioni? «Nella letteratura esistono molte dimore, anche opposte e contrapposte, non occorre scegliere ideologicamente tra voci contrastanti. È possibile credere nella fede di Tolstoj come nell'inerzia di Oblomov. E forse, la mia odissea letteraria è quella di raccontare il viaggio verso il nulla e il suo ritorno». Quali autori l'hanno formata maggiormente? «Tantissimi, impossibile menzionarli tutti: l'"Odissea" prima di tutto. Ma, poi, "Moby Dick" di Melville, Leopardi, Singer e Baudelaire. Sono d'accordo con quanti affermano che la mia etica oscilla tra Tolstoj e Kafka». Qual è oggi lo stato dell'arte e della letteratura? «Ha preso molte direzioni: si continua a dipingere, a scrivere, a creare, ma in modo differente rispetto al passato. Non ho nulla contro le nuove forme tecnologiche, anche se continuo a scrivere i miei libri con la penna e nell'antico caffè di Trieste: perché così mi sento solo e in compagnia, nell'anonimato, mi raccolgo in me stesso senza perdere però il contatto con la realtà. Oggi la letteratura si può appropriare di nuovi mezzi, filtrarli e rielaborarli. L'arte si trasforma, ma in una trasformazione, c'è sempre qualcosa che si perde e qualcosa che si conquista. L'invenzione della scrittura ha fatto, per esempio, perdere l'antica tradizione dei racconti orali». Cosa ha perso l'arte di oggi? «La fede nella Storia e il senso della centralità del mondo. Siamo in una fase di grande sconvolgimento, è una crisi che potrebbe anche portare al silenzio. Nel passato è già accaduto. Pensiamo agli artisti del 600 che sembrava vivessero decenni di decadenza rispetto al 500, invece poi è arrivata la trasformazione creativa con il barocco. Viviamo un clima culturalmente incerto: si vuole allo stesso tempo tutelare, riformare, contestare e abolire la famiglia». Anche la figura dell'intellettuale è mutata? «Non è più legato ad alcuna precisa professione. Se intendiamo per intellettuale una persona che trasmette il sapere, lo può fare sia un falegname sia un professore. E così, l'intelligenza delle cose, la capacità critica, dipende da come si vive il proprio mestiere, il rapporto tra sè e il mondo». Quale futuro vede per l'Europa? «Occorre sempre più avere problemi europei e non nazionali: dobbiamo credere in uno stato federale europeo». Come si sono trasformati gli atteggiamenti politici della destra e della sinistra? «Un tempo a peccare di ottimismo era la sinistra, mentre la destra ricordava i disagi della Storia. Ora i ruoli si sono invertiti e la destra sembra aver assunto alcuni aspetti di stolto ed ingenuo ottimismo. Credo sia un vantaggio per la sinistra, che così ha perso l'esagerato progressismo fideistico». Lei spazia tra teatro saggi e romanzi: come vive questa sua poliedrica attività artistica? «Sono tutte forme diverse di creatività. Chi inventa non è più creativo di chi critica. Come Platone non era certo più creativo di Omero. La letteratura è anche una discesa verso gli inferi, verso quello che Flaubert chiamava la latrina del cuore».

Dai blog