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«Conquistai Cannes nudo sotto la doccia»

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Nelmaggio del 1977 alla premiazione del Festival di Cannes, per la prima volta non parteciparono né il presidente, Robert Favre Le Bret, né il direttore, Maurice Bessy, né il vice direttore, Gilles Jacob. Mormorii, illazioni, pettegolezzi subito riferiti il giorno dopo dalla stampa internazionale, ma in modo contraddittorio e confuso. Ce ne illustra adesso le ragioni, chiarendo finalmente il retroscena, l'attuale presidente del Festival, Gilles Jacob, nella sua felicissima autobiografia, «La vie passera comme un rêve» (La vita passerà come un sogno), in cui, tenendosi sempre alla verità, sia nel pubblico sia nel suo privato, riesce a costruire un vero e proprio romanzo cui possono aderire con straordinario interesse sia i lettori di tutti i giorni sia quei tanti «addetti ai lavori» che quelle vicende e quei temi hanno seguito attraverso gli anni da vicino. In quel maggio del '77, dunque, c'erano in concorso due film italiani di seria qualità, «Una giornata particolare» di Ettore Scola, protagonista Sophia Loren, e «Padre padrone» dei fratelli Taviani. Il presidente della giuria era Roberto Rossellini e Favre Le Bret (che tutti noi chiamavamo FLB, alla francese «effellbé») contava su di lui perché la Palma d'oro fosse assegnata a Scola o, semmai, alla Loren. Rossellini, dopo averlo tenuto sulla corda, pur lasciando che tentasse di convincere anche gli altri componenti la giuria, la critica americana Pauline Kaël, ad esempio, il regista francese Jacques Demy, optò di testa sua, e con l'accordo di tutti gli altri, per «Padre padrone». Da qui il furore di FLB che, pur sapendo di contravvenire ad ogni regola, dichiarò: Rossellini consegnerà i suoi premi da solo, nessuno di noi ci sarà... Con tali conseguenze negative, a Parigi, che al ministero della Cultura cominciarono a pensare a un cambio della guardia. Non ancora nei confronti di FLB, sarebbe stato troppo clamoroso, ma nei confronti di Bessy, che, nato nell'11, si avvicinava del resto ai limiti d'età. Ecco, maliziosamente raccontata da Jacob, la scena di quel cambiamento ventilato. Lui ha sempre giocato molto a tennis e accadde che, in un club di Deauville, si trovasse a giocare una partita proprio con il ministro della Cultura che era Michel d'Ornano. Dopo, alle docce, tutti e due nudi, si sentì chiedere da d'Ornano se era pronto a succedere a Bessy. Così, su due piedi, e sotto l'acqua bollente. A me, sette anni prima, era toccata una situazione analoga, però vestito e vestito anche il ministro dello Spettacolo Matteotti in un'ascensore dell'hôtel Excelsior al Lido di Venezia: «Va bene, Rondi, Sorrento, Taormina, ma non pensa che sarebbe ora, ormai, se lei venisse a dirigere la Mostra di Venezia?». Per arrivare a quel giorno del '78 sotto la doccia, a differenza di me, Gilles Jacob aveva dovuto attraversare parecchie vicende ardue. Intanto nel '42, aveva solo dodici anni, appartenendo a una famiglia di religione ebraica, dalla Parigi occupata dai tedeschi, aveva dovuto sottrarsi alla Gestapo insieme con il fratellino e correre a nascondersi in un ospitale seminario di campagna accolto e nascosto dai Padri dell'Assunzione fino alla fine della guerra. Poi anche lui, molto giornalismo, prima «Lej Nouvelles Littéraires», poi «L'Express» e da ultimo, mentre già aveva lasciato l'impresa paterna, «Le matin de Paris», che, anche quello, aveva dovuto lasciare perché da FLB e da Bessy aveva ricevuto la proposta, ancora però in tono minore, di occuparsi di Cannes. Fino a quella, senza più limitazioni, di d'Ornano sotto le docce... Il privato e il pubblico, da quel momento. Volutamente senza ordine cronologico, così, chi legge, si trova di fronte a veri e propri capitoli di romanzo, ciascuno con il suo segno e il suo colore. Commovente e addirittura poetico quello dei funerali di Fellini a Roma, a santa Maria degli Angeli, «nella basilica di Stato», curiosi, divertenti, spesso spinti fino al sarcasmo quelli sulle varie bizze e le insormontabili manie di dive e di registi richiesti di partecipare al Festival, o con i loro film o in giuria. Clint Eastwood che, per essere ospitato, pretende addirittura una intera villa con piscina e lì, come presidente della giuria, esige che si tengano tutte le riunioni; Jeanne Moreau che, al Martinez, visita una dopo l'altra tutte le suites «presidenziali» per essere certa di vedersi riservata la migliore; Scorsese che, per decidersi ad accettare (non ama i viaggi, i fusi orari che cambiano, le interviste, le foto, la necessità di vedere due film al giorno) si piega solo all'idea che riceverà la Legion d'Onore. Non tralasciando, sempre con distacco furbo, altre rivelazioni colorite su questo o quel retroscena di giuria. Come l'abilità con cui Nanni Moretti, facendo premiare «Il sapore della ciliegia» di Kiarostami, vanificò le speranze di Isabelle Adjani che puntava invece sul «Dolce domani» di Egoyan. Lo scontro con Kirk Douglas che, presiedendo la giuria, voleva a tutti i costi la Palma per Bob Fosse, ostacolato da alcuni di noi, io ero tra quelli, che volevano invece e ottennero la Palma ex aequo anche per Kurosawa. Con una serata di premiazione subito dopo, in cui FLB (e Jacob non ne attenua le note quasi farsesche) annunciando i premi sbagliò quasi tutti i nomi, fino a dire «Ettero Scola», tra le risate di tutti. Potrei continuare. Il libro è una miniera. Ad intenzione soprattutto di chi dirige i festival riassumo almeno i motivi per i quali quell'incarico è così irto di guai. Perché i critici contestano le scelte, chi non è scelto regolarmente protesta, chi è scelto accampa ogni sorta di pretese (non il primo giorno, non l'ultimo giorno, mai a mezzanotte, ma in concomitanza con un grande film) e i presidenti di giuria fino alla fine si lamentano... Per esperienza diretta garantisco ad uno ad uno questi guai. E forse qualcuno in più.

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