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Tornare al nucleare in Italia è possibile e anche utile

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Tutti i processi autorizzativi, gli standard di sicurezza, le norme di esercizio, gli uffici preposti a valutare i progetti e sorvegliare sulla loro corretta esecuzione devono essere ricostituiti, per il semplice fatto che ben poco è rimasto, dopo il "no" del 1987, e quello che è rimasto riflette una cultura e un ambiente che erano lontani anni luce da quelli attuali. La stagione nucleare italiana si è svolta interamente entro il modello del monopolio pubblico; oggi il sistema è cambiato, l'Unione europea ha imposto (fortunatamente) una politica di liberalizzazioni, e ogni scelta industriale non spetta più al governo, ma agli attori che, quotidianamente, si muovono sul mercato. Essi non vengono più giudicati secondo la compatibilità dei loro comportamenti coi fini politici definiti dall'esecutivo, ma - più prosaicamente - in virtù della loro capacità di creare valore. Se si prende sul serio la sfida lanciata dal ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, occorre metabolizzare questo cambiamento. Che significa, anzitutto, pensare le nuove regole per il contesto esistente. Questo implica anche la comprensione delle peculiarità del nucleare. La generazione di energia elettrica per mezzo di impianti atomici ha, infatti, rispetto alle alternative, delle caratteristiche molto specifiche, che sono frutto del suo alto contenuto tecnologico. Circa l'80 per cento del costo dell'energia nucleare sta nella realizzazione dell'impianto e nel suo esercizio; solo il 20 per cento è legato alle componenti variabili, cioè al prezzo del combustibile. Ciò determina, al tempo stesso, un aspetto positivo e uno negativo. Quello positivo riguarda la prevedibilità e la stabilità dei costi, nel lungo termine. Quello negativo dipende invece dall'alto rischio connesso a un investimento nucleare: poiché la maggior parte dei costi sono "sunk", sommersi, cioè vanno affrontati anche se la centrale poi non entrerà mai in funzione, in caso l'investimento sia sbagliato (per esempio perché, causa di un'inversione di rotta dei mercati internazionali, i prezzi dell'energia crollano), la perdita è enorme e riguarda l'intero capitale investito. Ora, se a questa caratteristica generale si aggiunge il fatto che la tecnologia nucleare, essendo molto sofisticata, è anche molto cara (un impianto di grandi dimensioni può costare circa 2-4 miliardi di euro), si capisce che nessuno si avventura in un progetto atomico senza aver prima fatto le debite valutazioni. È essenziale, quindi, per un paese che intenda considerare la via nucleare affrontare seriamente il problema dei rischi, poiché da essi dipende la convenienza economica degli impianti. È possibile individuare tre tipi di rischio. Esiste un rischio di mercato - che i prezzi del petrolio (dunque del gas) crollino, rendendo non più competitivi gli impianti nucleari. Non c'è modo per controllare politicamente questo rischio, in quanto dipende esclusivamente da fattori esogeni. Inoltre, sono incompatibili con un contesto liberalizzato le strategie adottate nel passato per farvi fronte: esse includono, per esempio, forme varie di sussidi o garanzie del livello dei prezzi. Il sottosegretario Adolfo Urso ha escluso il ricorso ad aiuti di Stato (del resto vietati dalle norme comunitarie), quindi le imprese interessate dovranno trovare strumenti di mercato per limitare tale rischio (nasce qui l'attenzione al modello finlandese, che verte sulla formalizzazione di contratti di lungo termine con grandi consumatori di energia). C'è poi un rischio sicurezza: un incidente di vaste dimensioni a un impianto causerebbe danni incalcolabili. Anche di questo, il mercato può farsi carico, attraverso l'adozione di tecnologie avanzate o il ricorso a una sufficiente copertura assicurativa. Dove invece la politica può avere molto da dire è sulla terza categoria di rischio: il rischio politico, cioè l'eventualità che a un cambiamento di governo, o a un dietrofront dell'opinione pubblica, facciano seguito complicazioni normative che possono anche portare alla chiusura obbligatoria degli impianti (come negli anni seguenti al referendum). Questo rischio è drammaticamente alto in Italia, e ha un impatto disastroso sui costi. A un maggiore rischio, infatti, corrisponde la richiesta di un maggior ritorno sul capitale investito: dall'8-9 per cento, si può passare a cifre molto più alte. E questo può fare la differenza. Poiché gli investimenti nel nucleare hanno ritorni nel giro di almeno 30 anni, gli investitori hanno bisogno di garanzie che l'Italia al momento non può dare, e che certo non escono rafforzate dall'impressione che il ritorno al nucleare venga vissuto come una scelta politica di una coalizione contro l'altra. Il governo non si dovrebbe esimere, insomma, dalla ricerca di un dialogo costruttivo con l'opposizione, e dal canto suo il Partito democratico dovrebbe chiarire la sua posizione e offrire collaborazione, evitando i tatticismi. Nessuno, infatti, rischierebbe mai neppure un singolo euro avendo sul collo la spada di Damocle di voltafaccia in caso di un cambio di maggioranza a fine legislatura. Un'azione incisiva e mirata sugli aspetti normativi e regolatori diviene inutile se non s'appoggia a una sorta di patto bipartisan sulla politica energetica. I tempi e i costi dell'energia sono tali che il fattore veramente determinante, nel lungo termine, è la credibilità delle istituzioni.

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