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«Io, prigioniero in Russia» I ricordi di un reduce

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)all'amato padre Alfonso scomparso nel luglio del 1993. Nel 1942, a soli vent'anni, Alfonso, ragazzo abruzzese di Intermesoli, frazione di Pietracamela in provincia di Teramo, un piccolo paese alle pendici del Gran Sasso, viene sradicato dalla propria terra e mandato a combattere sul fronte russo. È un alpino e fa parte della Divisione Julia, Battaglione L'Aquila. Nel corso di un'imponente e travolgente offensiva sovietica - si parla di 2500 carri armati e oltre 16.000 bocche da fuoco - cade prigioniero. Dal Campo di concentramento di Tambov, all'ospedale di Bravoja, fino ai campi di lavoro del cotone di Taskent in Kazakhistan, è riassunta la sofferenza del giovane alpino abruzzese e di migliaia di altri prigionieri. Infine, dopo quasi quattro anni, il difficile ritorno a casa. Un'esperienza dolorosa e toccante di cui Alfonso non parla tanto una volta tornato a casa, ma che decide di raccontare scrivendo una sorta di diario postumo, il giorno in cui muore suo fratello Mario, nel 1992. La caratteristica del libro, infatti, non è la storia della guerra raccontata da un generale e, quindi, strategie e obiettivi, ma il racconto di un alpino che descrive le giornate delle reclute, il primo impatto con la barbarie della guerra, gli avvenimenti che hanno segnato l'anima e sono rimasti anni ed anni segreti. «È vero - spiega il figlio Vincenzo, da tutti chiamato Enzo - è proprio questa la particolarità: mio padre ha scritto la sua storia di alpino nella campagna russa, a freddo, 47 anni dopo quella drammatica avventura e poco prima di morire». Quasi sentisse vicina la sua ultima ora il reduce affidò a un diario la sua versione di quella campagna in Russi, forse meno calda e avvincente perché orami lontana, con qualche descrizione imprecisa, ma sicuramente obiettiva, di chi ha combattuto credendo in un ideale ma rendendosi conto di errori, carenze e impreparazione. La partenza e il viaggio nel '42, di un ventenne mai uscito dai confini d'Italia che rimane affascinato dalle stazioncine tirolesi, dai paesaggi verdeggianti e dai boschi della Germani. Ma rimane anche sconvolto nel vedere uomini e donne, tristi, rassegnati e affamati, con la stella di Davide sui vestiti laceri. Poi l'esperienza della prima linea col battaglione L'Aquila, il conflitto sulle sponde del Don con la neve alta e 40 gradi sotto zero, fino alla resa dopo l'entrata in campo della temibile «Katiuscia» la sputafuoco che vomitava sessanta colpi al minuto. Toccante la «marcia del davai» di migliaia di prigionieri verso il campo di concentamento di Tambov, con le mamme russe che, pensando ai loro figli in guerra, uscivano dalle isbe e davano un pezzo di pane ai giovani italiani. E la mancanza di cibo non era la sola sofferenza per i prigionieri: c'era il freddo polare che provocava vesciche ai piedi, congelamento alle gambe e piaghe che non riuscivano a rimarginarsi. Dopo il lager di Tombov, Di Michele viene mandato nell'ospedale di Bravoja, in Siberia, proprio a causa del congelamento e infine nei campi di lavoro del cotone di Taskent, in Kazakhstan. Infine dopo quattro anni il ritorno a casa con una felicità mista a sofferenza per non poter raccontare la fine di tanti compagni, il dolore e i patimenti subiti in una guerra troppo «grande» anche per la valorosa Divisione Julia Battaglione l'Aquila, che si distingueva per il motto creato da Gabriele D'Annunzio ispirandosi ai nomi di alcune città abruzzesi: «D'Aquila Penne Ugne di Leonessa». Cosa è significato per lei scrivere ora questo libro o, meglio, completare il diario di suo padre? «È vero, io ho completato con documenti e dati storici e geografici, ma soprattutto anche con particolari che mi ha raccontato un alpino compagno di mio padre, Dante Muzi che avevo sentito nominare molte volte. Per me però scrivere è stato quasi un dovere, un doveroso tributo ad Alfonso e ai suoi compagni di battaglia». Crede che suo padre sarebbe stato contento di «Io, prigioniero in Russia»? «Credo di sì, contento per la notorietà che ha avuto il libro e per la divulgazione di fatti storici che hanno interessato tantissime persone e che, purtroppo, tante non hanno potuto raccontare».

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