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Andreotti non è un potere cinico

Servillo nei panni di Andreotti

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[...] l'ho ammirato, con partecipazione solidale, quando l'ho visto affrontare con dignità e alto senso dello istituzioni una lunga, incresciosa e ingiustificata vicenda giudiziaria. Adesso sta per essere presentato al Festival di Cannes un film che Paolo Sorrentino ha pensato di dedicargli intitolandolo "Il Divo" in linea con quel "Divo Giulio" che un tempo era stato uno dei suoi appellativi. Si è cominciato a parlarne, e a scriverne, così a mia volta ritengo di poter dire la mia tanto da un punto di vista cinematografico - è il mio compito precipuo - quanto da quello del fondamento dei fatti su cui la trama del film si è voluta costruire. Riconosco ad un autore di cinema il diritto di interpretare i gesti e le psicologie dei personaggi che ha deciso di creare e tanto più riconosco questo diritto a un autore come Sorrentino cui sono bastati due film, "Le conseguenze dell'amore" e "L'amico di famiglia", per imporsi con autorità e prestigio, ottenendo consensi unanimi, però il Personaggio da lui creato non partecipa del tutto di una finzione, esce - da vivo per la prima volta nel nostro cinema - con tutta una sua storia reale alle spalle. È sì Personaggio, ma è anche persona, ha un nome, un cognome, una moglie, degli amici, anch'essi con nomi e cognomi. Sorrentino, inventando il Personaggio, si è separato invece dalla persona e dalla sua verità scegliendo nella enunciazione di certi aspetti controversi della politica italiana ai tempi in cui direttamente vi operava e in quelli delle sue note vicissitudini processuali, le interpretazioni meno oggettive e perciò meno rispettose dell'autentico e del fondato, finendo per proporlo quasi soltanto come un emblema gelido e cinico del potere, solo votato a quello e pronto, per quello, a giustificare di tutto. Un finale, in primo piano, gli fa addirittura enunciare teorie di crudo e spietato machiavellismo... Questi travisamenti e, peggio, questi tradimenti, nel momento stesso in cui fermamente li respingo, non mi impediscono tuttavia di attribuire al film, sia pure solo dal punto di vista della finzione, dei meriti cinematografici che non sarebbe possibile negargli del tutto. Le pagine corali, per esempio, a cominciare da quella delle elezioni alla Camera del Presidente della Repubblica, ambientate, come altre dello stesso tipo, in cornici rievocate in luoghi se non autentici certo simili, e alcune, più private, come il rigido rituale, con scorta armata, che segue il Personaggio, quando, di buon mattino, va a sentir Messa e quelle, intime e raccolte, che lo vedono intrattenersi con una moglie in ansia. Affidate ad immagini in cui, pur con qualche scorcio luminoso, si tende a privilegiare il buio, creandovi in mezzo forti contrasti figurativi. Meno convincenti invece le interpretazioni di cui sono pure responsabili attori noti (Anna Bonaiuto la cara signora Livia, la moglie; Piera degli Esposti, la compianta segretaria Enea; Flavio Bucci come Franco Evangelisti; Carlo Buccirosso come Paolo Cirino Pomicino). Si è cercata una possibile somiglianza, come nei film sovietici su Stalin e soci, ma oltre a raggiungerla con difficoltà, anche qui sono state quasi sempre male intese, anche all'interno della trama, le caratteristiche delle persone che si volevano ritrarre. Un errore addirittura macroscopico che si è poi fatto commettere al pur bravo Toni Servillo nelle vesti del protagonista. Oppresso nei movimenti e nella mimica da un trucco pesante fino alla caricatura, lo si vede recitare solo all'insegna di una immobilità che, oltre a non corrispondere alla Persona, questa volta non corrisponde nemmeno al Personaggio. Un tradimento doppio.

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