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Sfida vinta per il pittore Schnabel

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Ed ecco una voce chiara che si rivela presto di qualcuno che sta vedendo e ascoltando quello che noi vediamo e ascoltiamo. Però quello che crede di dire, realizza presto che gli altri non arrivano a sentirlo. Perché non ha voce. E non ha altro, immobilizzato su un letto, vivo e vitale solo nell'occhio sinistro con cui osserva tutto e tutti, guidato da una mente ancora capace di giudicare e di reagire... È l'inizio, terribile e cinematograficamente perfetto, di un film che il pittore americano Julian Schnabel, anche regista ("Basquiat", "Prima che sia notte"), ha realizzato in Francia seguendo da vicino un libro del direttore di "Elle", Jean-Dominique Bauby, intitolato appunto "Lo scafandro e la farfalla", che riassumeva la terribile situazione di paralisi cui aveva soggiaciuto dopo essere stato colpito da un ictus a soli 47 anni. Per scriverlo, Bauby, di cui era rimasta attiva solo una palpebra, aprendola o chiudendola per dire sì e no, con l'aiuto di una infermiera che via via gli enunciava vocali e consonanti, aveva potuto coraggiosamente descrivere non solo il suo terribile stato, chiuso come in uno "scafandro", ma anche quelle idee e quei ricordi che, alimentando la sua immaginazione, davano ai suoi pensieri quasi le ali di una "farfalla", permettendogli di volare lontano. Un'impresa narrativa e stilistica ostica e scabra. Schnabel, però, l'ha percorsa e vinta non solo seguendo, con l'immaginazione del protagonista, i suoi ritorni al passato, un vecchio padre, una moglie e dei figli bambini, un'amante che, atterrita, lo aveva subito abbandonato, ma anche, sempre in soggettiva, sempre perciò visti solo dal suo occhio sinistro, la sua condizione presente, il suo modo di reagirvi, i suoi rapporti con amici e parenti venuti a trovarlo e quelli con le infermiere che gli si fanno attorno, una ortofonista, una fisioterapista e la ragazza, più paziente di tutte, cui finisce per poter "dettare" parola per parola quel suo libro uscito a Parigi quasi in concomitanza con la sua morte; dopo due anni di quel calvario. Il risultato, così, umanamente commuove senza riserve e artisticamente avvince e convince in modo totale. Per il suo rigore drammatico, asciutto e quasi riservato, per quell'accorgimento di linguaggio che volutamente privilegia di continuo il punto di vista soggettivo (quasi lo spettatore sia "dentro" al personaggio), per una serie di immagini (di Janusz Kaminsky) che riescono a tenersi sempre in equilibrio fra il reale e l'immaginario. Con finezza. Il protagonista è Mathieu Almaric, cui si vedono a fianco non solo Emmanuelle Seigner, ma addirittura Max van Sydow e Jean-Pierre Cassel. Arrivato purtroppo, questo secondo, al suo ultimo film.

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