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La scelta del critico

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GIUSEPPE Tornatore riprende la parola. Dopo sei anni di silenzio perché il suo film precedente, «Malèna», risale al 2000. Un silenzio che gli ha giovato, non perché avesse bisogno di meditare sul cinema, un campo di cui sa tutto, ma perché gli ha permesso di studiare certi suoi indirizzi, individuare bene le sue mete e, soprattutto, decidere, intellettualmente e sentimentalmente, dove sarebbe riuscito ad esprimersi meglio. E ha optato per il noir. Con risvolti nel thriller, senza dimenticare i problemi affettivi (anzi accentuandoli), ma rappresentandoli con un linguaggio carico d'ansie, volutamente oscuro, claustrofico. La "sconosciuta", dunque. ha un nome, Irina, ha un luogo lontano da cui proviene, l'Ucraina, alle spalle, per certi suoi ricordi che attraversano, fulminei, il suo presente, ha un passato torbido, sotto la ferula di aguzzini, nel mondo orrendo di una prostituzione anche più orrenda. La incontriamo in una città italiana del nord, tetra, grigia, quando piovosa quando nevosa, che si intuisce essere Trieste anche se la sentiamo ribattezzare Velarchi. Fa di tutto per essere assunta come cameriera in casa di un orefice con una moglie e una bambina. Si comporta in modo strano, però, ora sembra una ladra, in altri momenti si arriva a sospettare che possa essere una spia, mentre, tra gli strappi dei suoi ricordi (in una calda luce solare che contraddice la nebbia del presente) sembra di vederla macchiarsi le mani di sangue, alle prese con un protettore che si comporta da sadico (o da mostro). Lentamente - ma, narrativamente, con una fortissima dinamica interna - gli interrogativi di cui la "sconosciuta" è circondata, trovano risposte. Fino a un'ultima che sembrerebbe conclusiva e che invece, con un colpo di scena drammatico, ribalta tutto. Pur accettando al momento di chiudere, una brevissima pagina consolatoria. Tornatore, con mano maestra, ha portato avanti la sua storia infittendola, da un punto di vista narrativo, di una serie di pagine spesso così sospese da sfiorare il mistero, tra le pieghe, appunto di un noir. Mentre, dal punto di vista della rappresentazione visiva, ha dato via libera a una violenza che, anche nei rari momenti di quiete, pervade le immagini affidandole quasi di continuo al buio. Con dei ritmi che esplodono ad ogni svolta, con lacerazioni e addirittura scatti cui la musica, come sempre coinvolgente di Ennio Morricone, aggiunge tensioni, emozioni, sospetti e perfino paure. Avvicinandosi a timbri che rasentano l'incubo; e anche l'allucinazione. Splendidamente espresse dalla recitazione di tutti, ma, in primo luogo, dell'attrice russa di teatro Xenia Rappoport che, della protagonista, ci dà un ritratto scavato fin nel profondo ma spesso abilmente all'insegna dell'ambiguità. L'aguzzino è un Michele placido rapato a zero che sa proporsi come un genio del male. Attorno altri grandi del nostro cinema, splendidamente diretti.

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