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Il cinema-verità di De Seta si esalta raccontando l'immigrazione

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Visto dal critico

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DOPO molti anni di silenzio, torna a riproporci un lungometraggio per il cinema Vittorio De Seta, premiato negli anni Sessanta a Venezia per la sua celebrata opera prima, «Banditi a Orgosolo», largamente applaudito in televisione nei Settanta con «Diario di un maestro», in seguito molto attivo (e apprezzato) negli Ottanta con alcuni suoi cortometraggi. Sempre attento alla realtà, specialmente dal punto di vista sociologico, anche adesso, con questo film, la affronta con l'intenzione aperta di documentarla dal vivo, pur ricostruendola secondo meditate e precise linee drammaturgiche. Il tema è l'immigrazione, soprattutto quella clandestina, che è uno dei problemi più scottanti della realtà italiana di oggi. Il protagonista è un giovane senegalese, Assane, che ha seguito a Dakar dei corsi universitari ma che presto, per le difficili condizioni di vita attorno a lui, ha scelto di emigrare in Italia. Prima gli orrori della sua attraversata, con degli scafisti che, pur ben pagati, alla prima avvisaglia di un pericolo buttano a mare tutti quelli che avevano imbarcato, poi la fuga da un centro di accoglienza in cui era stato rinchiuso e un fortunoso viaggio fino a Firenze dove abita una cugina che ha fatto strada come modella; però convive con un uomo con cui non è sposata e Assane, dati i suoi principi morali, non sentendosela di condividere lo stesso tetto, si sposta a Torino dove, pur non conoscendo nessuno, trova presto sostegno da parte di un gruppo di italiani (una donna e un sacerdote) che non riescono tuttavia ad evitargli un trauma quando si vedrà percosso e insultato da alcuni balordi razzisti. Fuggito di nuovo in Senegal, un suo anziano insegnante riuscirà a rasserenarlo dandogli anche la forza di tornare in Italia. Poiché quella è la sua strada. Tutto asciutto, autentico, svolto con una progressione drammatica che però non sembra dover mai nulla alla finzione: tanto gli ambienti sono reali e i personaggi, tutti i personaggi, sembrano colti lì all'improvviso da una macchina da presa che, per merito anche del digitale, dà ad ogni gesto, ad ogni reazione, persino ad ogni dialogo scopertamente improvvisato, una sensazione splendida di immediatezza. Come, anche in passato, accadeva sempre nel cinema di De Seta, teso a raggiungere, ad ogni svolta, gli equilibri più attenti fra il documento e la cronaca. Con il sussidio qui anche di interpreti, per la maggior parte non professionisti che, esprimendosi spesso, soprattutto i senegalesi, nella loro lingua, aumentano quell'effetto "dal vero" cui il film tende dal principio alla fine. Con una forza civile che sa diventare cinema.

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