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Mao, killer psicopatico di 70 milioni di cinesi

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Gli autori: Jung Chang, scrittrice, diventata famosa col bestseller «Cigni selvatici» - spaccato generazionale sulla Cina contemporanea - già «guardia rossa», comunista pentita; Jon Halliday, storico inglese, marito della scrittrice. Entrambi hanno lavorato per dieci anni, avvalendosi non soltanto di archivi storici mai consultati (in Russia, nella ex Germania Orientale, in Albania), ma anche di interviste a capi di Stato e di Governo, personalità politiche e religiose: da George Bush a Gerald Ford, da Edward Heath a Mobutu, da Imelda Marcos al Dalai Lama. «Imperatore rosso» della Cina, «satrapo orientale», «despota», «psicopatico», responsabile della morte di 70 milioni di cinesi, un genocidio che oscura quelli di cui si sono resi responsabili Hitler e Stalin. Questo il ritratto che i due autori fanno del leader che governò per ventisette anni il Paese più popoloso della Terra. Non c'è da meravigliarsi che il governo cinese abbia messo all'indice il libro, andato però a ruba a Hong Kong, pubblicato ora in Italia dalla Longanesi («Mao - La storia sconosciuta», 960 pagine, 22,60 euro: più di duecento pagine sono dedicate alla bibliografia e alla citazione delle fonti). Secondo gli autori, Mao non era nemmeno un vero marxista, ma «ideologicamente incerto». Cosa che non sfuggì a Stalin il quale, alla conferenza di Yalta, stupì Roosevelt e Churchill perché incline a dare a Chiang Kai-shek la Cina postbellica. Anche la saga della Lunga Marcia esce ridimensionata, sempre per quanto riguarda il ruolo di Mao. Accanito fumatore, si dava - insieme con un consigliere tedesco inviatogli dal Comintern - a originali ricerche botaniche provando, per sostituire il tabacco (che scarseggiava), foglie delle più svariate qualità. Ma questo era il meno, perché non «marciò» affatto. Tanto è vero che, in seguito, confessò: «Durante la marcia io me ne stavo in lettiga. Cosa ho fatto per tutto quel tempo? Ho letto moltissimo». Mao e i suoi in tanto poterono ritirarsi nello Yunan in quanto fu Chiang Kai-shek a consentirlo, in base a un preciso disegno del capo nazionalista: agitare lo spauracchio dei comunisti per intimidire i «signori della guerra», gli infidi generali che controllavano le provincie sud-occidentali dell'immenso paese. Dopo la presa del potere, nel 1949 - grazie anche ai complicati rapporti con l'Unione Sovietica - allucinanti bagni di sangue contrassegnaroni i momenti più significativi del pensiero maoista. Col famoso discorso dei «cento fiori» - che incoraggiava una critica costruttiva all'interno del sistema socialista - Mao riuscì perfidamente a stanare gli oppositori. I «fiori» sbocciarono, ma furono recisi; volarono cioè le teste. Quando lanciò la campagna per il «grande balzo in avanti» (surclassare in poco tempo tutti gli Stati capitalisti), i contadini furono cacciati dalle campagne e portati nelle fabbriche. Risultato: la peggiore carestia di tutti i tempi che causò 38 milioni di morti. Imperturbabile, il «grande timoniere» affermò che, pur di raggiungere gli obiettivi assegnati, «metà della Cina poteva anche perire». Si comprende, con questi antefatti, perché Mao non battè ciglio di fronte al terrore scatenato dalle «guardie rosse», quando fu dato il via alla «rivoluzione culturale» con l'attacco iconoclasta alla tradizione. Altro esempio: il Tibet fu prima «corteggiato», poi occupato, quindi subì la grande distruzione con l'attacco alla intera cultura tibetiana che significò la morte di metà della popolazione maschile adulta. In anni dominati dalla paura dell'olocausto nucleare - con l'«equilibrio del terrore» tra Usa e Urss - il leader cinocomunista si lasciò andare a una agghiacciante riflessione, prefigurando la distruzione del pianeta: «Sarebbe un evento grandioso per il sistema solare, ma un problema insignificante dal punto di vista dell'universo nel

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