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Nel giardino incantato c'è un po' di Edipo

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Il nuovo romanzo di Giampaolo Rugarli si snoda attraverso uno scambio epistolare tra madre e figlio

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tutto il resto è reale; tra i fatti narrati e il presente c'è di mezzo un abbondante mezzo secolo, il mondo è evidentemente cambiato; dovrei scrivere un altro libro, se volessi mettere a confronto lo ieri e l'oggi, tranne la guerra che conserva la sua sinistra attualità». Così presenta il suo nuovo romanzo, «I giardini incantati» (Marsilio, 190 pagine, 14 euro), Giampaolo Rugarli, autore di numerosi romanzi, da «Il superlativo assoluto», Premio Bagutta per l'opera prima, nel 1987 fino a «La luna di Malcontenta» di un anno fa, passando attraverso esperienze narrative di successo come «La troga» dell'anno successivo, «Il nido di ghiaccio», «Una gardenia nei capelli» che nel 1998 ottenne numerosi premi, con una media presso che annuale. Fra i titoli ricordati, sarà bene tirar fuori proprio «Il nido di ghiaccio» che vinse un Campiello, perché questo nuovo testo di Rugarli proprio a quell'avventura narrativa si richiama, riprendendo quel tema della memoria che oggi sembra così caro alla nostra letteratura (e al nostro cinema), e proprio in questa chiave evocativa il fenomeno andrebbe studiato e analizzato, anche come possibile farmaco ad un presente arido e duro che proprio questi valori tende a cancellare. Ma torniamo a Rugarli. Il romanzo nuovo è scritto sotto forma di epistolario: una serie di lettere, un patrimonio remoto e affettivo che all'improvviso viene fuori sotto forma di quaderno di appunti da trasmettere come segnale da parte della madre, in cui il tema centrale è rappresentato da un erbario, come detta il titolo del romanzo. Dopo tanti anni, quasi come forma reattiva a quel richiamo inaspettatamente riemerso, il figlio risponde con una lunga lettera, in bilico tra fantasia e realtà, in cui episodi, fatti, slanci d'amore e incomprensioni filtrano entro lo stesso spazio di percezioni, il più delle volte tenere e accattivanti, talvolte soggette ad improvvise impennate, che tuttavia non tradiscono mai un segno di protesta forte: «Insperatamente ci è stato donato un bianco Natale e il pranzo è festante. Solo sul Tuo volto, cara Mamma, mi pare di cogliere un'ombra, una malinconia che incrina la felicità cui pure Ti vorresti associare: per fortuna alla fine sorridi anche Tu, quando il genitore accende la radio, e una volta tanto non è per ascoltare Londra o Monteceneri; ma un coro di voci che canta: "tu scendi dalle stelle, o Re del cielo"». Questo è soltanto uno dei tanti momenti in cui, da un fatto/episodio, da un rituale che tuttavia si ripete annualmente e perciò conferisce al gesto una sua emotiva sacralità, fluttua e dilaga l'onda lunga dei ricordi, l'accumulo delle esperienze vissute, spesso mai condotte verso il porto tranquillo della soluzione, proprio perché circuite dal mistero, accese dalla fantasia. Il tema emergente è quello dell'infanzia, la stagione verso la quale le trame della memoria incontrano il più compiuto favore: la guerra impone una sorta di mediazione fra il grande centro urbano, Milano, e una campagna poco distante intesa e vissuta come rifugio ideale e possibile che preservi la vita, anche se l'universo concentrazionario della campagna sposta l'interesse verso la cura delle piante, la loro nomenclatura, le radici insomma, di una vita che ha tutti gli aspetti di un esistere vegetale. Il mondo degli affetti, tuttavia, sta lì solido, incrollabile, a far da custode alla sopravvivenza, a fronte di un padre non proprio attento alla vita domestica, e una madre che nella cura e nella classifica dei fiori, delle piante, del paesaggio naturale che la circonda, riesce a trovare quell'incanto che le impedisce di arrendersi all'evidenza: «Si può classificare il disordine ossia non si può classificare niente», conclude col dire. Oltre la siepe, anziché il buio, ecco spuntare la lampada della scrittura, e confrontarsi con i segmenti della vita, reperire quell'indice di senso e di significato che vuol dire equilibrio.

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