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Domenico Rea, il plebeo colto di Napoli

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A suo modo un vero poeta». Così Ruggero Guarini ha definito Domenico Rea per il quale ha scritto pagine interessanti, contenute nella bella edizione dei Meridiani che raccoglie le Opere dello scrittore partenopeo (Mondadori, pp.1742, ? 49). Guarini, perché la critica letteraria italiana ha sempre sottovalutato Rea? «È lo scrittore meno ideologico della sua generazione, anche se lui ha astutamente trescato con il partito comunista, pur non essendosi mai iscritto. Questo stesso partito ha seguito sempre la politica di alleanza con gli uomini di successo, e quando Rea lo ha raggiunto, quello stesso partito ha cercato di farlo proprio». Lei definisce il Suo sentimento della vita, così come il Suo realismo, "creaturale"... «Questo è un concetto del critico e filologo tedesco Auerbach. Il termine deriva sicuramente dal cristianesimo. È la pietas creaturale che abbraccia tutto l'umano, dalle figure più gentili a quelle più aspre. È uno sguardo pietoso, non sentimentale. La caratteristica peculiare di Rea consiste nel suo sentimento creaturale della vita. Non ha mai un briciolo di buonismo, non mistifica mai le cose, mai nasconde il male». Rispetto a Eduardo o a Malaparte o ancora alla Ortese, quale posto occupa, secondo Lei, Rea, nello scenario letterario napoletano? «Rea ha una voce completamente diversa da quegli autori. Sulla Napoli del dopoguerra, lo sguardo di Eduardo, pur restando un grande scrittore e attore, è di un moralismo molto più banale di quello di Rea. Per il primo è una tragedia che in una famiglia della plebe napoletana, una ragazza si sia data a qualche soldato americano per una barra di cioccolato, o che un ragazzo abbia fatto qualche affare con il contrabbando e il mercato nero. La stessa Ortese era una piagnona, orripilata di fronte agli aspetti più terribili della vita. Non a caso il suo primo libro di racconti, pubblicato durante la guerra con Mondadori si intitolava Angelici dolori. Ma la vera differenza è che lo sguardo di Mimì Rea era plebeo colto, intelligente e audace, lontano da ogni sentimentalismo edificante, moralistico, predicatorio. Mai avrebbe potuto scrivere, con il suo gusto di lettore dei classici, battute come "i figli so piezz' 'e core" o "i figli non si pagano". È una retorica dalla quale lo stesso Rea era estraneo. Tra tutte le opere, quali reputa le migliori? «È stato un grande narratore di racconti, ne ha scritti circa ottanta. Di questi almeno venti sono dei veri e propri capolavori. Lo stesso romanzo Una vampata di rossore, è il più bello degli anni '50, il più bello della sua generazione che contempla, tra gli altri, lo stesso Calvino: scrittore intelligente, acuto, spiritoso, brillante, a volte forte, ma vicino a Rea è sempre di ispirazione libresca, è cartaceo; Pasolini invece è uno scrittore indecente. Narratore importante è Paolo Volponi». A proposito di Italo Calvino, questi nelle Lezioni Americane dichiarò le cinque qualità dello scrittore: velocità leggerezza esattezza visibilità molteplicità. Una Sua opinione a riguardo? «È una preferenza che condivido e Mimì Rea, tra gli scrittori della sua generazione, le possedeva tutte e le dimostrò almeno in tutto ciò che scrisse prima di Una vampata di rossore. Sicuramente la massima espressione di queste cinque qualità l'ha data Stendhal». Possiamo quindi affermare che Domenico Rea è il cantore dell'allegrissima e disperatissima festa degli umili? «Non si può immaginare cosa è stata Napoli nel '44, che tragica festa della vita!, era una città che era stata semidistrutta dai bombardamenti, non come Roma, molto di più. A Napoli non c'era niente e non si trovava niente. Era una città disperata. Quando è arrivata la quinta armata, è arrivato il mercato nero, e con questo è arrivata la prostituzione e con la prostituzione il benessere che ha fatto mangiare la città. E Rea è l'unico storico che dice la verità. Il primo discorso di Toglietti criticava il degrado morale che avevano portato gli americani. Ci sarà stata pure la corruzione, ma anche un momento di euforia, d

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