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Indigesta la filosofia in pillole

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Con l'antologia di Severino torna il dilemma: i compendi sono utili?

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Ma quale può o dev'esser questo tetto? Da quando è comparso sulla terra, l'uomo s'è posto la domanda e s'è dato mille risposte: delle quali ognuna, per così dire alla prova dei fatti, è risultata insoddisfacente e, dunque, provvisoria. Questo ininterrotto domandarsi e rispondersi, questo ininterrotto cercare e rifiutare, si chiama - con un termine ambiguo, supponente e fragile - filosofia. La filosofia è una scienza? Certo. Anzi è la «scienza» par excellence. Che raduna e riepiloga tutte le altre, che senza di essa non avrebbero alcun significato, né relazione col mondo e coll'uomo. La filosofia è perlappunto la scienza del significato delle cose. Un imbrunire, un'equazione, una musica, un calcolo algebrico, un giudizio, un amore, un logaritmo, un odio, una formula fisica: che mai varrebbero se non ci fosse la filosofia che addita loro il posto da occupare e, sovr'a tutto, che cosa rappresentare? Eppure tale impegno, sublime e capitale, che svolge questa attività del pensiero, e ch'è richiesto e impetrato - in modi più o meno consci - da ciascheduno di noi, poggia su una drammatica ed irresolubile contraddizione: la filosofia che dà ordine ed armonia al tutto non è in grado di trovare il senso definitivo e positivo di sè. Ed ogni volta che storicamente afferma e determina se stessa e dunque un criterio di verità, in quell'affermazione e determinazione specifica è contenuta, a priori, la sua negazione. La filosofia, potremmo affermare, è il miraggio d'una fonte che l'uomo assetato nel deserto scorge: e non può far a meno di correrle incontro mentre quella fonte costantemente s'allontana da lui sitibondo. Vero è che non ci sarebbe quel miraggio se l'uomo non avesse sete. Ma è altresì vero che non ci sarebbe l'uomo, quale esso è, se quel miraggio non fosse fonte od illusione di conoscenza. Ché se l'uomo non avesse sete di conoscenza non sarebbe; o vero, sarebbe Iddio stesso. Della filosofia non possiamo fare a meno: come dormire, nutrirci, sognare, dubitare, guardare.... Eppure essa nega se stessa, già che c'invita ad interrogarla in termini assoluti e ci risponde in termini relativi. Non già nel senso che, ad esempio, Aristotele, Descartes o Hegel abbiano formulato risposte equivoche, costruito sistemi fallaci, abdicato alle fondamenta ed al coronamento della metafisica. Bensì nel senso, piú doloroso, che ciascuno di loro ha minato il sistema di chi l'aveva preceduto, negandone, in parte od in toto, la verità conseguita. Gli è che all'uomo, a tutti noi, non interessa il «laboratorio» nel quale la ricerca filosofica giustifica l'indefessa dialettica nel perenne divenire e trasformarsi della sintesi; bensí ci preme la «certezza», l'evidenza di una verità - il «tetto» cui s'accennava sopra - e, piú ancora, l'implicito sistema dei valori e delle norme che ne conseguono per il nostro essere e insieme vivere. A leggere e valutare in guisa ponderata e distesa i «Dialoghi» di Platone, eppoi la «Critica della ragione pura» kantiana, quindi «Così parlò Zarathustra» di Nietzsche, il tuo bilicare fra conchiusi e differenti universi di pensiero ti crea disagio e inquietudine. Ma se leggi un'antologia filosofica del pensiero occidentale dai greci ai giorni nostri - quale l'ultima curata da Emanuele Severino (Rizzoli, pgg. 659, euro 12.50) - quel fluttuare fra diverse «Weltanschauungen», o fra mondi opposti tout-court, si trasforma repente in un opprimente vortichìo del reale, in un'incontrollabile e celerrima metamorfosi del Tutto; ed il pensiero di ciò che siamo e di ciò che è tutt'attorno a noi si fa spaesamento, ambascia immedicabile, dubbio assoluto. La «verità» t'appare una destinazione stravagante, un bersaglio puerile, una filastrocca. Ed il forsennato ripetersi in cattedra dei maîtres-à-penser lungo il fluire dei secoli balza come un'armata velleitaria d'ipotesi affatto intercambiabili; uno sterminato barbagliare all'orizzonte di fuochi fatui. Ecco, hai teso la mano: afferri null'altro che la tua supplica inevasa di cono

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