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di WALTER MAURO «VUOL comprare una vigna? Qui non si compra più niente.

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Oggi ne vale anche settecento, ottocento. Si guardi intorno: son tutti miliardari. Finché dura...». A seguir bene queste riflessioni di Luciano, ad apertura del romanzo di Nico Orengo, ora in libreria con un prezioso testo intitolato «Di viole e liquirizia» (Einaudi, 155 pgg. 15.50 euro), mentre accompagna l'ospite straniero su per le colline pettinate a vigna, quegli spazi verdi, un po' sinuosi (tanto simili a seni di donna, scriveva Cesare Pavese), con un buon margine di attenzione insomma, ci si accorge che lo scrittore torinese — ma al contempo tenace vagabondo fra mare ligure e paesaggio piemontese — ha voluto dedicare trama e personaggi di questa sua nuova fatica letteraria a qualcosa di remoto, di scomparso, patrimonio di un mondo antico e vergine, che il tempo ha deteriorato fino a renderlo inesorabilmente un'altra cosa. È terra di vini pregiati, questa che Luciano sta attraversando, punteggiata da una mitica nomenclatura, Chionetto, Mascarello, Rinaldi, roba da ricchi, mica quello che bevevano Pavese, Fenoglio, l'umanità allegra e dolente che quei due si tiravano dietro, scagliandoli dalla realtà nell'invenzione. Il protagonista assoluto di questo romanzo dal titolo singolare, da assaporare prima che da leggere, è dunque il vino, anche se lo scatto narrativo non può che dilatarsi in una vicenda distesa a macchia d'olio (anche perché il prezioso nettare si conservi...), che ha necessità di un intreccio corale, ben distaccato dall'ospite francese che arriva, vuole occuparsi di vini, è un famoso sommellier, e si ritrova al centro di una complicata vicenda, legittima alternanza per rendere del tutto attendibile e godibile il profumo che anticipa il gusto del palato. Daniel Lorenzi è qui, fra le Langhe, soltanto per tenere un corso di degustazione ad Alba: i grandi di Francia non sono i re che furono sul trono prima della Rivoluzione, ma i vini della sua terra: c'è un sentore di concorrenza con i nostri vini, e bisogna correre ai ripari. Pretende di insegnare a bere ai langaroli, e parrebbe folle impresa, ma invece la terra dei sani bevitori non sa più bere, travolta da un maremoto di affari, turismo gastronomico, antiche usanze che stentano ormai a rigenerarsi. Anche gli abitanti sono cambiati, anche se per quelle contrade, fra i campi di vino, circola il personaggio di Amalia, che lavora all'enoteca Tastevin, e che Orengo descrive con acre sapore quando incontra alla taverna il francese: «Era l'uomo goffo che aveva visto sbucare da sotto il noccioleto della Ginotta. Provò una debolezza immediata verso quella figura grossa, impacciata, dallo sguardo azzurro e i capelli rossicci, arruffati sulla fronte larga, e s'irrigidì». Ha uno strano modo di conoscere le persone, Amalia, per via di un traumatico ricordo che riguarda la sua infanzia: e questa sua aria dolente, pur frammista a momenti di spensieratezza, la rende accattivante presso gli ospiti di ogni remota regione che capitano ad Alba, nel suo locale. E anche per correre ai ripari per quanto va dicendo Luciano allo straniero sul degrado della terra regina dei vini. Tutti i personaggi paiono fare a gara per restituire alla sacralità di quelle terre una pàtina scolorita, e in realtà il circondario gestisce comportamenti che aiutano al riscatto umano, Amalia e Giulio soprattutto. Proprio al vivo di questi frangenti, che paiono muoversi in un contesto di attesa di chissà cosa, ecco apparire una sorta di «deus ex machina», timido alter ego dello scrittore, uno strano letterato che si fa chiamare Eta Beta, e si immette a sorpresa al vivo della storia, quasi a voler rappresentare quella ridda di figure minori, taxisti ubriachi, produttori all'asciutto, calciatori di pallone elastico, quasi una pelota basca, scommettitori, esperti del trattamento dei vini, e perché no, tanti turisti. Il potenziale di governabilità di questa folla da parte di Orengo è invidiabile, come anche l'idea di assegnare il ruolo d

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