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«L'oro del Reno» di Wagner all'Opera di Roma

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Lo s'adora o lo si respinge. Le vie di compromesso nei confronti di questo rivoluzionario dell'anima decadente europea non indicano un equilibrio, un giusto mezzo, ma soltanto la confusione di chi le pratica od aspira a praticarle. Beethoven e Bach sono musicisti: Wagner è un nettare o un tossico, un pantheon od un baraccone - come si preferisca - della caduta subita dalla civiltà occidentale al crepuscolo del secolo diciannovesimo. Wagner è un sublime compositore, al paro dei due succitati, oppure è un manipolatore dei suoni esangui del proprio tempo? È un genio o un carabattoliere? Ambedue le tesi possono esser plausibili, come per solito, o meglio, sempre accade per il dritto e per il rovescio d'una medaglia, già che non è dato applicare un criterio assoluto di verità alla sfera estetica e del gusto: e, a ben vedere, nemmanco al «reale» tout-court. Si prenda ad esempio «L'anello del Nibelungo», la cosiddetta «Tetralogía»: è un ciclopico e mirifico mausoleo a gloria dell'umano intelletto, come sono opinati il «Faust» di Goethe e la «Commedia» di Dante, oppure è un lacerto insoffribile e spampanato e fumigante della postrema propaggine della «Romantik» tedesca? Forse un giorno, snebbiati dall'equanime fluire del tempo, lo sapremo; ed il giorno appresso, magari, sapremo l'opposto. Per l'intanto, de «L'anello del Nibelungo» consideriamo «L'oro del Reno», anzi, la «Vigilia dell'Oro del Reno» come la definiva Wagner: il prologo alle tre giornate, la cui prima rappresentazione ebbe luogo in Monaco di Baviera, il 22 di settembre del 1868. Questo primo cimento, non differentemente dai tre successivi, esige dallo spettatore-ascoltatore, affinché non soccomba sotto l'immane pondo dell'evento, dedizione d'anima e corpo, ménte affatto sgombra, freschezza intellettuale da grembo di rosa e, all'uopo, pazienza giobbica: a perscrutare l'intrico degli accidenti. Ed esige a sua volta dagl'interpreti - dal direttore all'orchestra, dal regista allo scenografo, ai solisti del canto - una perizia inscalfibile, un'ispirazione aligera nello svolgimento del proprio còmpito, affinché il cuspidale e delicato evento operistico non si gretoli, comicamente, tragicamente, quale arenaria. Ora c'ha provato, coll'Oro renano, il Teatro dell'Opera di Roma. Che sia súbito encomiato in virtú dell'ardimento palesato: per aver fatto passare come rappresentazione di routine nel corso della stagione, anzi, agli sgoccioli suoi, un drammone musicale di tal fatta. Noi per principio amiamo assai piú l'intenzione, la quale è prospettica ed inesauribile di sorprese e misteri, che l'atto, il quale al fin fine altro non è che sé stesso. Atto che nel tempio lirico capitolino è risultato suscettibile di giudizî non omogenei. In breve, il direttore Will Humburg è parso non voler troppo lusingare le virtuosistiche finezze della partitura quanto le deflagrazioni foniche, privilegiando una lettura dalla cifra non poco generica e sbrigativa. Il cast vocale non ha punto deluso: corretto e professionale di per sé, ossia, a prescindere dall'universo wagneriano. Incardinata su filmati tra il fantascientifico e Conan il barbaro, d'una sua indubbia suggestione, come dire?, lunaparkistica, la regía firmata da Pier'Alli.... E per parte sua il pubblico ha in fine acclamato tutti con schietta adesione: giustamente, essendo stato appagato il suo proprio gusto.

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