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SCHUMANN E MAHLER, TRIONFO AL PARCO DELLA MUSICA DI ROMA

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Nel vortice di Abbado e PolliniIntesa perfetta fra i due in una visione della poesia che si fa alta moralità

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Eppure si dànno casi - valga d'esempio, l'altra sera al Parco della Musica di Roma, il trionfale concerto di Claudio Abbado sul podio della «Lucerne Festival Orchestra» e del pianista Maurizio Pollini - in cui è d'obbligo al critico musicale fornire coi proprî gracili attrezzi scrittorî la spiegazione soddisfacente d'un avvenimento atto a magare un uditorio incalcolabile e commosso. Ci si riferisce alle ragioni arcane per le quali un'adempiuta realtà di suoni funzioni come prodigioso mezzo d'elevazione e d'aristotelica catarsi delle anime. L'incorruttibile corrispondenza d'intenti e di stile che si palesava fra Abbado e Pollini nel trepido «Concerto in la minore per pianoforte e orchestra op.54» di Robert Schumann era la risultanza d'una medesima concezione della musica: ossia, la dimensione estetica che si dichiara sorella a quella etica. Per ambidue gli artisti il Bello è anche il Buono: la luce della poesia è anche, e sovrattutto, luce di verità. Si badi però, non già una verità dommaticamente asserita, universalmente valida, ma la verità morale di stampo kantiano che si definisce in interiore homine. La profondità, la severa dolcezza e la vastità del loro suonare quel «Concerto» schumanniano scaturivano dal sentimento d'un dovere assoluto ed intimo: quello di trasmettere il messaggio ineffabile della musica intesa come effetto fra i piú alti della dignità e del decoro dell'essere umano. Né Abbado, né Pollini mai avrebbero potuto, nel capolavoro di Schumann come in qualsisíasi brano, esser succubi delle scipite blandizie della belluria fine a sé stessa, delle tossiche sirene del narcisismo, delle plebee stronzate del divismo dilagante. Cosí suggellava quell'interpretazione verginale, mondata d'ogni compiacimento di pathos per ricondurre il capolavoro del compositore tedesco ad un ideale di purità sentimentale, ove l'«Io» romantico, infelice e nobile artefice del mondo, anela alla conquista dell'infinito: anela ad infrangere le barriere del reale che l'opprimono onde fuggire e dilatarsi finalmente nell'Assoluto. Abbado e Pollini ci rammentavano in virtú di questa musica che nessuna epoca ha tanto preteso dall'uomo, e dunque nessuna l'ha sí invilito, come l'età del Romanticismo tedesco agli albori dell'Ottocento. Ultimo genito delle smoderate mire della «Romantik» è stato anche Mahler, la cui «Sinfonia in mi minore n.7», piú delle altre otto, pulsa della disgregazione, dell'orrore e del commiato «sub specie musicae» della civiltà occidentale. Un'opera che non può esser compresa se non rapportata alla tragica crisi patita dalla musica d'arte nell'obbrobrioso tumultuare del Novecento. Spietata e translucida la direzione d'Abbado nell'accogliere e ricomporre il gigantesco dramma che fiotta dalle asperità del linguaggio: acre fioritura di sberleffi e S.O.S. per l'inabissarsi della storia della musica nel gorgo del nulla, trascinando seco epoche di fierezza e glorie; pedana di lancio per iatture, disperaggini e misfatti che l'uomo del secolo ventesimo avrebbe riversati sul linguaggio dei suoni. Aure lunari, su rovine di cartongesso, fra sbocchi di sangue frammisto a sarcastiche scempiaggini di mandolini e campanaccî. La «Settima»: meraviglievole zuppa d'imbestiati spiriti e superstiti strida di misericordia; di perdizioni dell'anima ed erranti lemuri d'utopie muffite. In termini lirici, Abbado ha configurata la «Settima» come implorazione alla poesia delle genti d'una plaga in via di postrema decomposizione; in termini d'estetica sociologica, come il traforo in cui è risucchiata la società occidentale attesa all'uscita da una metamorfosi che scontraffarà le originarie sue sembianze; in

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