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Ruggeri: canto

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cercando l'uomo libero

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La dodicesima, «Il fantasista», contenuta in «Domani è un altro giorno» (1997), è stata riproposta in chiave bossanova-jazz. «Non rubo i titoli ai film. Probabilmente mi vengono suggeriti da immagini forti che mi hanno suggestionato nel tempo a livello inconscio», tiene a precisare Ruggeri, artista rigoroso e uomo dalla morale forte, talmente a disagio in questi tempi sciagurati da aver smarrito per strada anche il suo amore viscerale per l'Inter, la squadra del cuore. Gene Gnocchi ha detto che dopo la simulazione degli attentati terroristici a Milano si farà la simulazione dello scudetto dell'Inter... «Bè, in casi estremi... Io mi sono innamorato del calcio ai tempi di Mazzola, Corso, Domenghini, Baggio. Quello di adesso non mi emoziona più, fra epo, bilanci truccati, violenza. Manca il sentimento. È più bello vedere una partita del campionato inglese. Io spero che l'Inter ce la faccia, ma per me non è più come una volta». Platini ha detto che bisogna mettere un tetto agli stipendi dei calciatori. «Non è quello il punto, il nodo centrale è che si preferisce giocar male con otto uomini a centrocampo e non perdere, piuttosto che divertire e uscire sconfitti per quattro a tre». Tu sei sempre stato etichettato come cantautore di destra. Ma in Italia si può vivere e lavorare senza etichette? «Evidentemente no e questo è lo specchio dei tempi. Non esiste più l'uomo libero, che dice quello che pensa. Adesso è sinonimo di villano, invece è semplicemente dignità interiore. Ci sono delle persone che ambiscono solo al potere, ed altre che non ci stanno e lo dicono. E fra quelle ultime ci sono anch'io». «Eroi solitari», il brano di apertura, è dedicato ai caduti di tutte le guerre dimenticati dai libri di storia. I nostri ragazzi in Iraq stanno facendo la cosa giusta? «Secondo me no, ma non è colpa loro. In Iraq ci sono i perdenti, i figli degli emigrati, quelli che per trovare un lavoro hanno accettato di fare cose che forse non condividono». Hai detto che gli iracheni hanno un'altra fierezza rispetto a noi, che invece abbiamo sempre bisogno di un padrone. «Intendevo dire che gli americani, nella seconda guerra mondiale, per liberarci hanno raso al suolo le città. 200 bambini morirono in una scuola a Gorla, eppure noi li abbiamo accolti con affetto, ma non è detto che in tutto il mondo vada così. Bisogna rispettare gli usi e costumi del luogo, quello iracheno è un popolo violentato, loro hanno un altro senso della vita rispetto a noi». In «L'americano medio» critichi molto duramente gli americani e la loro dipendenza dalla televisione. «Molte delle situazioni in cui ci troviamo sono frutto dell'ignoranza e della conseguente paura. Ci viviamo in mezzo, fra antifurti, allarmi, attentati, acquabomber. Quando arriva qualcuno che ci rassicura gli andiamo dietro come pecore, è così che nascono le dittature». Come si reagisce alla cultura della paura? «Parlandone. Io non ho certezze, e alcune delle domande che mi pongo finiscono nelle mie canzoni». La musica ha ancora una funzione taumaturgica, riesce a farci sognare? «Forse sì, ma non in tempi brevi, e sicuramente non quella delle classifiche e di Mtv». Il tuo suono si è ammorbidito nel tempo. È una tua via "costelliana" al rock? «Grazie, mi piace il paragone. Una delle sfide che si fanno nella vita è quella di cercare nuove strade». Nel dvd allegato all'album suoni dal vivo «Sweet Jane» di Lou Reed e "Jean Jenie" di Bowie. «È un omaggio. Devo a loro la mia decisione di fare il musicista».

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