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Waters: «Dopo la Rivoluzione forse torneranno i Pink Floyd»

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Riunire la band per il Live 8 e suonare i vecchi pezzi è stata una grande emozione. Per venti anni io e David Gilmour abbiamo avuto posizioni estreme e ora mi rendo conto che il mio è stato un atteggiamento infantile. Come in tutte le cose bisogna cercare una via di mezzo, venirsi incontro. Ecco perché dico forse». Da lontano sembra una brutta copia di Richard Gere: corporatura slanciata, lunghi capelli brizzolati discriminati nel mezzo. È invece Roger Waters, ex bassista e fondatore dei leggendari Pink Floyd, a Roma per un progetto di grande visibilità ed importanza. Il 17 e 18 novembre il Parco della Musica ospiterà infatti la sua opera lirica, «Ça ira», in prima mondiale nella interpretazione della Roma Sinfonietta diretta da Rick Wentworth e una folta massa corale costituita dal Coro Lirico Sinfonico Romano, dal Coro Casini della Università di Tor Vergata e il Coro di voci bianche Alessandro Longo diretti da Stefano Cucci. Oltre duecento esecutori (85 professori d'orchestra, cento coristi più 20 voci bianche) ad accompagnare una performance semiscenica, impegnati in numerose prove già dal mese di giugno. «La genesi di quest'opera - rivela la rockstar - ha inizio nel 1988 quando Etienne Roda Gil mi venne a trovare negli studi di Londra e mi chiese di mettere in musica il suo libretto. Si trattava di una storia polemica ma anche poetica, ambientata al tempo della Rivoluzione francese, illustrata da sua moglie Nadine. Mi colpì subito la stretta connessione con i tempi odierni: per questo ho accettato l'invito. Feci un demo che suscitò interesse, ma poi il progetto si arenò per sei anni per la morte di Nadine. Ripresi in mano il progetto solo nel '95 e ne cominciai l'orchestrazione». È stata per lei una sorta di sfida personale quella di cimentarsi con l'opera lirica e la sua tradizione. Che valore assume questo progeto per lei? «Quindici anni sono uno spazio abbastanza lungo in una carriera. Il trucco è quello di trovare qualcosa che ti prenda dentro. Devo innanzitutto sentirla nel mio cuore, poi l'ispirazione dell'artista aiuta a realizzarla. A catturarmi è stato il libretto che parla della Rivoluzione francese, connessa con la affermazione dei diritti dell'uomo, con la dichiarazione di indipendenza e la costituzione». Ma lei come cittadino del mondo cosa vorrebbe cambiare? Quale vorrebbe fosse la sua rivoluzione? «L'ultima pagina del libretto afferma la certezza e la determinazione delle proprie idee. I leader del mondo si collocano oggi agli estremi, Osama Bin Laden come Bush. Assumere posizioni estreme non lascia speranza a chi vuol vivere nel mezzo. E vivere nel mezzo vuol dire avere più pace e meno rischi per i nostri figli. Un altro verso parla della estrema disparità delle ricchezze nel mondo tra gli esseri umani. Molti artisti del rock, come Bono, hanno parlato di questi problemi. Basta lo 0,3% del Pil dei Paesi sviluppati per consentire a miliardi di persone nel mondo di vivere meglio». Per un'opera del genere quali sono stati i suoi modelli musicali? E quelli ideologici? «Quando ero giovane amavo ed ascoltavo molta musica del XIX secolo. Qui alcuni hanno notato influenze di Berlioz (il Te Deum e la Sinfonia fantastica), Prokofiev (Ivan il terribile e Alexander Nevsky), Verdi (il Requiem) ma anche Brahms, Mahler e Beethoven. Rispetto al mio precedente The Wall qui la tavolozza sonora è diversa e l'idea originale non è mia, ma con la musica ho cercato di commuovere il pubblico. Spero solo che la gente non venga fuorviata nel suo giudizio dal fatto che sono stato un artista rock. Mio padre è sepolto ad Anzio dove morì nelo sbarco del '44. La politica può molto per la gente. Mia madre era impegnata politicamente.Da qui viene la mia sensibilità al tema politico».

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