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Addio a Vigorelli, innamorato dell'Europa e di Manzoni

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Aveva 92 anni (era nato a Milano il 21 giugno 1913). di WALTER MAURO QUANDO nessuno ne parlava, lui, Giancarlo Vigorelli, cominciò a parlare d'Europa, a nutrirsi del sogno di veder realizzata e compiuta quell'unità oggi così ardua e complicata da conseguire. Inventò dall'oggi al domani la rivista «Europa letteraria», proprio nel momento più acre e difficile della guerra fredda, e da quel proscenio, lui con tutti noi, si sforzò di creare un «ponte», per quanto era possibile in quegli anni così proibitivi, fra Est e Ovest, fra due letterature che, per quanti tentativi tirannici venissero compiuti, non riuscivano a staccarsi da radici comuni, individuabili nel culto comune per Dante, per Dostoevskij, per Tolstoj, per quel decadentismo che nell'area slava si alimentava inevitabilmente di umori francesi. E Giancarlo è stato anche un insigne francesista, come testimonia una delle sue più intense opere, intitolata proprio «Carte francesi», che nel 1959 significò un primo passo verso un più consistente incontro e gemellaggio. Veniva da una cultura cattolica molto libera e autentica: il suo punto di riferimento era Alessandro Manzoni, non solo per via degli «Inni Sacri» e dei «Promessi Sposi», ma anche e soprattutto per quel modo così manzoniano di coniugare la fede religiosa con la ragione, come conseguenza di un sussidio che talune radici illuministe — che sicuramente Vigorelli possedeva in termini di acuta intelligenza — erano capaci di sviluppare in lui come una forte tensione, da un canto a misurare la fede con il lucido metro della ragione, dall'altro ad ergersi a difensore strenuo di una libertà interiore che lo spingeva ad amare Sartre e Claudel, con la limpidezza di chi sa riconoscere il significato profondo della vita interiore. Proprio tale tendenza — che mai conobbe un compromesso di alcun genere — lo indirizzò verso due fra le riviste italiane più rigorosamente impegnate nella difesa dei valori civili del cristianesimo, non disgiunti dal significato più fortemente partecipe del fatto letterario: il «Frontespizio» e «Campo di Marte» furono due palestre che nutrirono il meglio della nostra creatività letteraria nel primo Novecento. E quell'«Europa letteraria» che ne rappresentò il seguito ideale, volle ospitare fra i suoi collaboratori i grandi dell'Est e dell'Ovest, in una ideazione ecumenica che accostò Rafael Alberti a Paul Claudel, Gunter Grass e Raymond Aron, nel pieno di un colloquio in grado di superare la difficile trincea dell'ideologia e della divisione, in nome di una Europa come casa comune che lo vide entusiasta protagonista. «Io non ho frontiere», amava dire, e sì che ne aveva tanti buoni motivi, lui che nulla e nessuno trascurava pur di conseguire quell'unità della mente che oggi rimpiangiamo come un bene perduto e che invece il suo profondo senso della cristianità ha amato e prediletto come un bene smarrito, inafferrabile. I tempi sciagurati e crudeli che viviamo, in cui il rispetto e il culto della vita hanno ceduto alla crudezza della barbarie e dell'offesa al prestigio dell'individuo, non gli hanno risparmiato nulla, pur nelle difficoltà fisiche di questi suoi ultimi, tormentati anni di vita. Non casualmente un altro dei suoi fondamentali referenti fu il grande teologo francese Teilhard de Chardin, autore di quel decisivo testo, «Il fenomeno umano», in cui si gioca l'ardua carta della difficile convivenza fra evoluzionismo e dottrina, insomma fra quell'umano e quel divino che dovrà protrarsi oltre la condizione fisica dell'uomo, nella beatitudine dell'Empireo. Vigorelli avvertì tutta la «scomodità» di quel personaggio, e nel 1963 gli dedicò un testo di grande rilievo, «Il gesuita proibito», che aprì, a quel tempo, un acceso dibattito, di rara profondità interiore. Dietro, sullo sfondo, il solito amatissimo Manzoni, con il suo giansenismo, le sue crisi, la sua forte tensione verso l'alto, nell'iperuranio della fede: «Il Manzoni e il silenzio dell'amore» (1954), «Manzoni

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