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De Felice, revisionista del futuro

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Le interpretazioni dei contemporanei e degli storici» (1970), e soprattutto la celeberrima «Intervista sul fascismo», rilasciata giusto trent'anni fa allo storico americano M. A. Ledeen: è arrivato il momento, per «tutta» la cultura italiana, di ricordare l'infaticabile ricercatore, il creatore di una nuova scuola di studi storici, l'intellettuale «davvero» impegnato, perché davvero mosso da voglia di verità e spirito civico? C'è da dubitarne se consideriamo che fascismo e antifascismo non sono ancora diventati «voci» di dibattito storico e basta, ma continuano a far parte della polemica politica, anche se il loro impiego non conosce l'ossessiva frequenza degli anni Settanta. C'è da dubitarne se consideriamo quel che si continua ancora a leggere in certi manuali in uso nelle medie superiori. C'è da dubitarne se consideriamo l'aura tenebrosa che continua ancora a gravare su termini apparentemente «neutri» come «revisionismo» e «revisionista». Revisionismo, revisionista: in genere chi utilizza queste parole politicamente scorrettissime lo fa per formulare una pesante accusa - quella di voler giustificare o assolvere o addirittura riabilitare il fascismo - e per ribadire una dura sentenza - il fascismo è condannato dalla Storia (inevitabilmente, in questi casi, la maiuscola è di prammatica) e schiacciato sotto il peso di autorevolissimi «ipse dixit». Metterli in discussione significa dover rispondere al reato di lesa maestà democratica, antifascista e resistenziale. Ragion per cui capita che anche studiosi moderati, temendo di essere «incamiciati» in nero, mettano le mani avanti: revisionisti, noi? Giammai! Ma c'è chi non si lascia impressionare ed esibisce con disinvoltura infamate insegne. È il caso di uno storico e commentatore politico sicuramente equilibrato come Sergio Romano che, per l'appunto, scrivendo «Confessioni di un revisionista» (Longanesi, 1998) ha rivendicato l'oltraggioso epiteto. E già lo aveva fatto proprio Renzo De Felice in un libro-intervista a forte temperatura polemica: «Per sua natura lo storico non può che essere revisionista, dato che il suo lavoro prende le mosse da ciò che è stato acquisito dai suoi predecessori e tende ad approfondire, correggere, chiarire la loro ricostruzione dei fatti. Lo sforzo deve essere quello di emancipare la storia dall'ideologia, di scindere le ragioni della verità storica dalle esigenze della ragion politica» («Rosso e Nero», a cura di Pasquale Chessa, Baldini & Castoldi, 1995). Con premesse del genere, lo storico reatino aveva azzardato riflessioni imperdonabilmente provocatorie. Come queste: «Contrariamente a quanto ha sempre sostenuto la "vulgata" filoresistenziale, soprattutto comunista, non è possibile considerare la Resistenza un movimento popolare di massa: il movimento partigiano si fece moltitudine pochi giorni prima della capitolazione tedesca, quando bastava un fazzoletto rosso al collo per sentirsi combattente e sfilare con i vincitori»; «Mussolini, piaccia o non piaccia, accettò il progetto di Hitler (la formazione di uno Stato fascista che continuasse la guerra a fianco della Germania-ndr), spinto da una motivazione patriottica: un vero e proprio "sacrificio" sull'altare della difesa dell'Italia(...); ritornò al potere per "mettersi al servizio della patria", perché solo così poteva impedire ad Hitler di trasformare l'Italia in una nuova Polonia». Altrettanto provocatorie certe domande come le seguenti: «Perché, dopo cinquant'anni, la cultura di questo Paese non è riuscita e, tutto sommato, non vuole fare, sa

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