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La vendetta targata Corea e il rigoroso '68 di Garrel

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SCELTI DAL CRITICO

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Vendetta» e, di recente, «Old Boy». Oggi conclude la trilogia con «Lady vendetta» sostituendo però ai due personaggi maschili al centro degli altri film, un personaggio femminile, Geum-ja, che ci presenta all'uscita di una prigione dove l'hanno rinchiusa per infanticidio. Presto però ne apprendiamo la storia vera. Era incappata in un insegnante dall'aria tranquilla che era, in realtà, un mostro. Uccideva bambini in serie, solo perché li odiava. L'aveva sempre fatta franca ma un giorno era finito tra le maglie di un'inchiesta; per uscirne, aveva rapito la figlioletta di Geum-ja minacciando di ucciderla se lei non si dichiarava unica responsabile dell'omicidio di cui cominciava ad essere sospettato. Naturalmente la donna, per amore della sua bambina, si era piegata e si era vista camminare quindici anni di carcere. Adesso, com'è chiaro, appena uscita, medita la sua vendetta. Ci arriverà soltanto alla fine, convocando al momento di tirare le somme tutti i genitori dei bambini uccisi dall'insegnante, facendolo trovare loro davanti legato e imbavagliato e invitandoli a ucciderlo, infierendo su di lui uno dopo l'altro. Senza tenersi però con sé la figlia, che intanto aveva ritrovato in Australia adottata da due bravi coniugi, perché, dopo quella sua impresa così atroce, non si sentiva più degna di lui. Molti meriti, ma anche qualche pecca. Intanto, fra i meriti, i modi di rappresentazione. Senza essere quasi surreali come in «Old boy», si tengono spesso in equilibrio fra il realismo, la pagina più tesa ed angosciante è quella, pur molto insistita della vendetta collettiva, i parenti delle piccole vittime da una parte e il mostro dall'altra. Affidato a immagini forti, figurativamente perfino preziose. Sul versante dell'immaginazione molti ricordi, specie quelli della vita in prigione, si alternano al resto con qualche incisività, ma qui, dal punto di vista narrativo, si affastellano troppi temi, troppi personaggi e troppe situazioni di contorno che non solo intralciano la logica del filone vendetta ma ne smorzano il clima che pur dovrebbe procedere in crescendo verso quella conclusione terrificante. Basta però questa conclusione e il disegno sempre ben precisato di quella protagonista lacerata e stravolta per dare un senso al film. Con la consapevolezza che anche questa terza puntata di Park Chan-wook sulla vendetta potrà ottenere consensi. Sia pure con riserve. Consensi con minori riserve, soprattutto sul piano intellettuale, andranno, quando uscirà nelle sale, al film di ieri pomeriggio. «Les amants réguliers», firmato da Philippe Garrel, uno dei registi di culto del cinema francese. Il ritratto di un amore — gli «amanti regolari» del titolo — ma in modo speciale, anche quello di una generazione di giovani parigini studiata prima durante la contestazione studentesca del '68, poi, nel clima di tante speranze deluse, tra rapporti disinibiti di coppia (con scambi), indulgenze eccessive per la droga, l'oppio in modo particolare, e il nascere di questa o quella vocazione artistica, negli uni la poesia, negli altri la pittura. Uno stile di totale rigore. Intanto in uno splendido bianco e nero, con contrasti fortissimi, poi con una tesa ricostruzione, nella prima parte, delle barricate del '68, e nella seconda con una precisa rievocazione non solo di quell'amore alla base dell'azione, ma dei tanti caratteri che vi si avvicendano attorno: sempre all'insegna dell'immediatezza e della verità. Coinvolgendo, nonostante una voluta lentezza di ritmi che rasenta la staticità, grazie anche a un commento musicale di pianoforte solo, carico di suggestioni emotive; e poetiche.

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