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Videofonino, noia del reale

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Dietro il boom dei cellulari-telecamere i rischi di una visione distorta della vita

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Ora anche il pastore, abbandonato il gregge, "recubans sub tegmine fagi", non si diletta più a comporre carmi o a suonar zampogne ma preferisce guardare sullo schermo del suo cellulare l'ultima puntata della soap opera preferita. O magari a scattar foto ai suoi agnellini. Perché se è vero che con un telefonino il mondo "è tutto intorno a te", è altrettanto vero che con un videofonino tu puoi rimandare a chi vuoi quella porzione di mondo che l'obiettivo può inquadrare. Con una manciata di bit, direttamente in tasca dell'interlocutore. Già le istantanee, le vecchie Polaroid, dimostravano la voluttà di ri-guardare ciò che si era appena vissuto, in una sorta di immediata storicizzazione della propria vita e, d'altro canto, in un'inevitabile segmentazione della medesima in entità discrete: le immagini, appunto. I francobolli di vita rappresentati dalle fotografie digitali che istantaneamente possono essere visionate, mitizzano il passato prossimo, ridefiniscono la temporalità del vissuto quotidiano e ora, con la possibilità di comunicazione a distanza attraverso la telefonia mobile, strutturano reti relazionali che consentono la condivisione con altri, a distanza, di quel frammento di vita congelata. Scriveva negli anni Sessanta Marshall McLuhan: «Nessuno può fare della fotografia da solo» («Gli strumenti del comunicare», Milano, Il Saggiatore); ebbene oggi la massima intensità di ciò che si vive è data proprio dalla possibilità di comunicarlo agli altri: con la telefonia cellulare "tradizionale" attraverso la parola parlata o scritta (SMS), nell'era della telefonia cellulare multimediale attraverso l'immagine (MMS). Sconcertano queste pubblicità, perché, purtroppo, non sembrano per nulla enfatizzare un mondo che verrà, ma piuttosto descrivere quello in cui già viviamo: quante migliaia di foto scattate col telefono davanti al catafalco di Giovanni Paolo II per poter dire "io c'ero". Siamo circondati da persone che danno un senso alla loro vita in quanto nodi attivi di un sistema di telefonia mobile attraverso il quale vengono gestite (instaurate, filtrate, troncate) molteplici e fondamentali esperienze sociali, quelle affettive innanzitutto. E l'ubiquità della copertura di campo rende ancora più odiosa quella caratteristica già propria della telefonia fissa. Chi ti cerca attraverso la Rete ha sempre la priorità su chi ti sta davanti in carne e ossa: quanta volgarità in un cellulare posato sul tavolo ove si pranza. Dunque il videofonino illude ciascuno di noi, offrendoci la possibilità di raccontare la vita in diretta mentre - in realtà - si diffondono soltanto brandelli di passato, di già vissuto: cadaveri ancora caldi, ma pur sempre cadaveri, perché «La foto è come un teatro primitivo, come un quadro vivente: la raffigurazione della faccia immobile e truccata sotto la quale noi vediamo i morti» (Roland Barthes, «La camera chiara. Nota sulla fotografia», Torino, Einaudi, 1980). Il senso dell'ostentazione è sempre esistito, in forme più o meno stereotipate, secondo determinate formule retoriche. Oggi però esistiamo solo in quanto esibiamo: sentimenti, relazioni, denaro, ombelichi. Non sarà che alla lunga questo processo di progressiva emersione dell'interiorità umana verso la superficie del nostro corpo e poi oltre, verso gli altri - tutti gli altri, quelli che incontriamo con la materialità della loro presenza, ma anche quelli che ci conoscono attraverso le reti telematiche - porterà a una società trasparente, come l'ha definita Gianni Vattimo, ma nel contempo anche terribilmente noiosa nella sua fretta di consumare ogni momento, ogni emozione? Verrebbe da dire con Busi: «Invece di sviluppare tante foto per niente, sviluppate un po' di memoria per qualcuno che ancora non ce l'ha... Chi fotografa per far vivere, fa morire e muore» («Manuale del perfetto Gentilomo (con preziose imbecca

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