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Magica Capri tra yankee blues e swing

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E come, per effetto di quale magia Capri, che poi chissà se è veramente la più bella delle nostre perle sparse in mare. è salita a una fama così vasta? Roberto Ciuni, che le riserva un amore forte, niente affatto sdolcinato, e le ha dedicato parecchi anni di appassionati studi, risponde così: «Il suo mito l'hanno costruito gli stranieri, che vi approdarono in occasioni di grandi vicende storiche. Cominciando da Tiberio, che da Capri tenne le redini dell'impero romano. E continuando poi con gl'inglesi protettori dei re Borbone e con i francesi di Napoleone, loro nemici. Senza dire della incredibile reclame che le fecero nel Settecento, nell'Ottocento e anche dopo i viaggiatori insigni del grand tour e i letterati, gli artisti, i rivoluzionari, gli aristocratici, le star del cinema d'ogni paese. In ultimo, completarono la formazione del mito i militari statunitensi, che nello scorcio della seconda guerra mondiale si ritemprarono a Capri e, magnificandola, la fecero conoscere alla più parte degli americani». Bella, dunque, e fortunata. E poi, in aggiunta, la fortuna di star lì, dinanzi a una delle più straordinarie città del pianeta, nel bene e nel male, di fronte a Napoli, Capri. E al tempo stesso ne è lontana, come un remoto altrove. Le separa un tratto di mare che a percorrerlo i nuotatori di fondo impiegano una decina d'ore e i motoscafi veloci giusto il tempo che se ne va per fumare un paio di sigarette. Un insieme, nel Golfo, in cui realizza una vertiginosa separatezza, come nella cappella-bar futurista dell'architetto Sartoris, dove in un'ala si pregava e nell'altra si beveva; o come nella proverbiale nave di Peppe Lanterna, dove a poppa combattevano e a prora non lo sapevano. Ora, Roberto Ciuni ha dedicato all'isola azzurra, un libro che gli sarà costato almeno cinque anni d'indagini pazienti ma che ha il ritmo del diario, a tratti disteso, a tratti incalzante; un libro che racconta che cosa avvenne a Capri durante la grande guerra ultima: «Stelle e strisce sui Faraglioni. Gli americani a Capri» (1943-1945), uscito in questi giorni per le benemerite, eleganti Edizioni della Conchiglia (289 pagine, 20 euro). Ed eccoci negli eventi, tra le figure, le voci, i rombi, le bombe, gli strazi, le musiche, persino tra i sapori di quell'allora. Che cominciò nell'isola, nel '40, con le giornate lunghe dei capresi, di non molti ospiti e di una guarnigione di artiglieri. Soltanto s'ipotizzava, all'inizio, che forse, chissà, degli aerei nemici avrebbero potuto fare la loro comparsa in cielo. E si soppesava l'eventualità di attacchi dal mare, nella mira di Napoli. Perciò cannoni, mitragliere, punti d'avvistamento. Ma così, per scrupolo, più che altro. E invece, soprattutto dal '42, gli aerei inglesi e americani passarono di continuo sopra Capri per scempiare Napoli. Un martirio, fino a tutto il 1943. Un martirio seguito con i binocoli da Capri, ché la notte era veramente uno spettacolo, vicino e lontano nel contempo, di bagliori e boati e colpi secchi della contraerea e arcobaleni di proiettili traccianti e gridi acuti o rochi di motori in cielo: spettacolo a cui non volle essere assente poi il Vesuvio con l'eruzione del '44. Dunque, Capri, durante la guerra, un po' depressa patria di paesani e di spaesati, sanatorio di soldati tedeschi feriti al fronte, diviene poi asilo di un Benedetto Croce assai più vecchio dei suoi settantott'anni, teatrino d'una povera storia locale di rivalse e infine — e siamo alla più popolosa polpa del libro — Rest Camp, ossia luogo di riposo e svago di militari americani impegnati nella campagna d'Italia, i quali in numero di circa duemila si avvicendano negli hotel dell'isola, lì ricevendo visite di ricreazione o di considerazione (da Frank Sinatra ai generali Clark ed Eisenhower) e lì permanendo ottimamente grazie alla delizia dei siti, al mestiere ospitale dei capresi al buon mangiare e bere. Scrivono, scrivono, scrivono a tutti i loro parenti,

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