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Springsteen, il trionfo della solitudine

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Ha lasciato a casa la gioiosa macchina da guerra della E Street Band, il più affidabile gruppo del milieu rock, e si è presentato sul palco da solo, accompagnandosi con poche cose: un organetto, la chitarra, l'armonica. E un piano, d'accordo. A intravederne la figura, nella penombra del Point Depot, poteva essere scambiato per uno dei tanti musicisti di strada che si contendono le monete dei passanti a Grafton Street. Ma quando ha preso a cantare è stato come se sulla scena fosse comparso l'avversario del Diavolo. Lui, Springsteen, a giocarsi una scommessa contro i demoni e gli scettici, i disillusi e gli indifferenti. Il Boss ha aperto così, trionfalmente, il segmento europeo della sua tournée solista davanti a ottomila dublinesi (ma le richieste per i biglietti erano state 250mila) che - tranne che verso la fine dello show - hanno accolto la sua richiesta di starsene tranquilli ai loro posti, ma che si sono spellati le mani dopo ogni brano, anche quelli meno ovvii, quelli che si direbbero solo letture poetiche - sketch di letteratura americana in miniatura - e non proposte musicali complesse. Due ore e mezza vissute in perfetta solitudine, con l'ostinazione e la fiducia di un cercatore d'oro, su quel palco che - più volte - è stato sottratto ai limiti della scenografia e trasformato anch'esso in uno strumento: come quando, subito dopo l'esordio con una "Beautiful Reward" trasfigurata nella lentissima tessitura di un organetto, Bruce ha dispensato una "Reason To Believe" risciacquata nel blues delle acque del Delta, la voce disumanizzata, filtrata da un effetto-radio anni Venti, il piede battuto a terra per il ritmo, certo, ma anche per segnare il tempo della lotta contro Belzebù, come avrebbe fatto Robert Johnson o Willie Mc Tell. Il rituale voluto da Springsteen in questa sua sfida solista prevede sequenze di brani legati da affinità tematiche e da snodi narrativi in cui esporre, in filigrana, l'odissea quotidiana dell'uomo comune. Dove, in un mondo ingovernabile, la speranza di trovare nuovi valori è sottomessa al recupero di quelli tradizionali: che per il 56enne artista del New Jersey non possono più essere le zingarate dei giovani in cerca di un'opportunità "on the road", bensì la famiglia, il rapporto con i figli, con la propria maturità, e la necessità di non perdersi dentro, di non vedersi strappata l'anima dal tempo che passa e dalla vanità del proprio destino. E l'orrore del mondo, ovvio: ecco "Devils & Dust", buttata lì a chitarra battente, e raccontata tra i denti, tutta d'affanno, come fanno i soldati di pattuglia, che a parlare a piena voce si rischia grosso, con il nemico nascosto. Ecco lo sgomento dell'11 Settembre, in "Lonesome Day": e questa è una di quelle canzoni per cui servono spalle larghe e cuore, per proporla senza il conforto della E Street Band. Argomenti che il Boss offre in ambientazione americana - i grandi spazi che imprigionano lo spirito - ma che diventano immediatamente universali. Qui sta la sua forza, il suo talento: e su un piano tecnico, quando stravolge gli arrangiamenti dei propri brani non lo fa con l'insofferenza di un Dylan né con la sardonica malizia di un Tom Waits: semplicemente, fa assumere loro nuovi significati. Come nell'esecuzione pianistica di "The River" (nella storia del rock, la più commovente tra le canzoni che parlano della fine di un matrimonio), che diventa rarefatta, liquida, pensosa, proprio come dovrebbe cantarla un uomo di mezz'età che cerchi un senso nei propri fallimenti. Purissima magia, nel bel mezzo del concerto, in chiusura di una trilogia familiare aperta poco prima dall'allegra "Long Time Comin'" («L'altra sera ho litigato con mio figlio, e lui si è chiuso nella stanza a suonare la chitarra a tutto volume. Potevo mai dirgli di fare meno baccano? Ecco come i genitori rischiano di sbagliare», scherza Bruce presentandola), e proseguita con l'assorta "Silver Palomino", dedicata a un ragazzino che ha perso la madre, e che immagina che il suo spirito sia quello del suo cavallino che g

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