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Bergman, allegro maestro del dolore umano

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E lo fece, in quel di Cannes, sorprendendo e spiazzando anche chi alla fine avrebbe assegnato al suo «Sorrisi di una notte d'estate» il Premio Speciale della Giuria. E si sa che nel Festival di Cannes si identificava il vero megafono del mondo della celluloide. Un riconoscimento alla Svensk Filmindustri e ad una cinematografia tutta, secondo soltanto alla Palma d'Oro, poiché precedente, ottenuta dal «Froken Julie» di Sjoberg nel 1951. E dire che non solo i futuri emblemi, per quanto giovani, ma anche i decani di un'antica scuola cinematografica, come poteva essere la svedese, aspettavano da tempo l'occasione di una giusta lode. Dopo Victor Sjostrom, il documentarista Sucksdorff e Arne Mattsson il cinema svedese riconquistava con Bergman un posto sul mappamondo, ma di primissimo piano e da quei tempi in poi coincidente con i film del maestro di Uppsala. Usciva dalla tundra, dalle sue solitudini, e perdeva la rete protettiva che un pubblico nazionale, ostinato, remoto e sciovinista, gli aveva offerto e costruito attorno pur con la sua assoluta lealtà. Ma Bergman ed il suo «Sorrisi di una notte d'estate» appartengono ad una operazione pubblicitaria tra le più memorabili, in quanto riescono nell'imporre reminiscenze oniriche e pochade alla Shakespeare più Max Ophuels in un Paese ancora troppo chiuso in sé e frenato dai ricordi del Secondo Grande Conflitto Mondiale. Ancora più che la «Notte del piacere» di Sjoberg, od il «Froken Julie» come da titolo originale, Bergman, che pure in patria vantava oramai dieci anni di onorata carriera da regista, essendo il suo primo film, «Crisi», del 1945, misconosciuto ma splendido esempio di espressionismo alla nordica in cui temi esistenzialisti vengono trattati per la prima volta in chiave allegorica, matura già la sua arte in un raro «gioco da adulto» dacché fa chiedere «È una commedia o un dramma?» da Anne Egerman al marito, l'avvocato Fredrik Egerman un tempo amante dell'attrice Desirée Armfeldt in tournée in una piccola città del Nord, prima che questi vadano in teatro a vederla. Traslata, la stessa domanda si pone al suo cinema e al suo teatro. Lungo un processo creativo che donerà alla sfera dell'intimo temi che, se anche provenienti dal teatro, acquisiranno la dimensione del reale e certamente dell'universale, Bergman tenta come pochi di affrancarsi dalla sua educazione e dalla nazionalità proponendosi e riproponendosi ogni volta in forme diverse. Tracciando figure di artisti, giullari, clown, negromanti, avvocati, buffoni, chi avvinazzato, chi ridanciano, chi perfino grottesco, egli arriva al dolore del fisico e del metafisico di «Sussurri e grida» come se una sorta di fibula stretta intorno alla tradizione allentasse la presa e gli facesse dire che lo spettatore, quale che sia, si rallegra dell'abbrutimento insito nella sofferenza dell'artista, ove cioè commedia e dramma sembrano darsi la mano. Da quel fondo funereo, cinico e al contempo magico, che sottende il suo carosello di coppie male assortite, «Sorrisi di una notte d'estate» emerge per buona parte imperniato sulla perfetta intuizione che ci si può amare anche se non si può vivere insieme, e che l'allegro dolore umano dei suoi, qua e là, Don Giovanni e Mefistofele stia nell'asservire gli istinti alla ragione. Con «Il settimo sigillo» e «Il posto delle fragole» il cinema avrebbe iscritto un altro magnifico nome nel suo Grande Libro di Autori.

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