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Sant'Orsola ritrova lo stendardo

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Caravaggio lo dipinse sette giorni prima di morire. Ora emergono dettagli ignoti

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Un'«epifania» che si ripeterà dall'1 luglio al 29 agosto a Milano, presso la Pinacoteca Ambrosiana, e dal 3 settembre al 10 ottobre, a Vicenza, in Palazzo Leoni Montanari. A commissionare il dipinto fu il patrizio genovese Marcantonio Doria (figlio del doge Agostino) nell'estrema fase del secondo periodo napoletano del grande artista. Precisamente attorno al maggio del 1610, come si apprende da una lettera di Lanfranco Massa, procuratore del Doria, dell'11 di quel mese. Caravaggio morirà a Porto Ercole sette giorni dopo, il 18 luglio. Tuttavia ebbe verosimilmente il modo d'esaudire un'altra richiesta di Marcantonio, un «San Giovanni Battista», uno dei protettori di Genova del quale i Doria conservavano le reliquie del sangue. Peraltro, nei giorni precedenti, il Caravaggio ne aveva dipinto uno per il cardinale Scipione Borghese (nipote del papa nonché Plenipotenziario di Giustizia, dal quale dipendeva la remissione del bando capitale comminato all'artista-omicida), cui l'opera era giunta dopo alcuni dirottamenti (anche a seguito della morte del pittore) e il ritorno temporaneo a Napoli, presso la marchesa di Caravaggio Costanza Colonna Sforza, la quale aveva ospitato l'artista e ne aveva poi conservato alcune tele: il suddetto «San Giovanni Battista disteso» (oggi in una raccolta tedesca), quello (seduto) ritornato al Borghese (Roma, Galleria Borghese) e la «Maddalena in estasi», dipinta nei feudi Colonna e rimasta nell'ambito della famiglia. Il Viceré, Conte di Lemos, aveva tentato d'impossessarsi di tutti questi, ma alla fine si era dovuto accontentare del «San Giovanni Battista disteso» in quanto rimasto in parte non finito e, quindi, in minore stima (cosa che aveva dissuaso il Doria dal richiederlo). Insomma, era pressante la richiesta di opere del Caravaggio in atto fin dai suoi giorni. Così come la voga attuale abusa del suo nome evocandolo (per lo più a sproposito) in innumeri mostre e mostrine, sovente di qualità infima. Ricordo quella in programma dal 24 ottobre al 24 gennaio 2005 all'interno del Museo di Capodimonte a Napoli, che si avvale dell'incerto titolo «Caravaggio — l'ultimo tempo — 1606-1610». Ma torniamo al «Martirio di S. Orsola». Grazie al talento di Carlo Giantomassi (mai sufficientemente lodato per l'impegno prodigato nel recupero delle opere d'arte in tutto il mondo, dal Tibet all'Iraq, col restauro di quanto resta del Museo archeologico di Baghdad) e di sua moglie, Donatella Zari, sono stati arginati i guasti che avevano degradato l'opera «ab origine», resa irriconoscibile dai restauri maldestri del passato e da quelli frettolosi più recenti, ulteriormente aggravati all'aggiunta di un lungo frammento di tela sul lato superiore (per un'altezza di circa 13 cm), oggi finalmente occultato dietro la modesta cornice neoclassica che andrebbe sostituita con una d'epoca e qualità più idonee. Il nuovo intervento (certamente il restauro migliore dopo quello della Sistina) ha restituito vigore cromatico all'insieme e leggibilità ai dettagli: dal turbante sul capo del re unno alla tenda dello sfondo, dove è riapparso (appena sfiorato dalla luce) lo stendardo della santa, mentre sul suo corpo è tornata in evidenza una mano, resa con uno scorcio accentuato, prettamente caravaggesco, che dipende dalla figura che l'affianca e che, con tale gesto, parrebbe proteggerla. Tutto ciò è sufficiente a valutare l'ultimo tempo del Caravaggio e la giusta spesa del restauro, autofinanziato da Banca Intesa, proprietaria del capolavoro, nonché a sollecitare il confronto e il restauro del «San Gennaro decollato», in deposito presso Palazzo Barberini, in Roma, le cui caratteristiche tecnicostilistiche ne confermano l'affinità (anche cronologica) con la sanguinante Sant'Orsola.

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