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di LUIGI CARANTI L'ATTUALE dibattito sull'università, rianimato dalla contestata proposta di ...

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In gioco c'è semplicemente il futuro del paese. Chi ne dubita pensi solo a questo. L'università forma il 90% dei quadri di una nazione, siano essi dirigenti del settore privato, manager pubblici o funzionari dell'amministrazione. Spesso la politica attinge direttamente tra le fila degli accademici (devo ricordare che il mestiere più rappresentato in parlamento è in proporzione quello dei professori universitari?). Quindi, università d'eccellenza significa classe dirigente d'eccellenza. Università mediocre, come è quella di oggi, significa classe dirigente mediocre, come è infatti quella attuale. It is as simple as that dicono gli americani. È così, puro e semplice, diremmo noi. La riforma Moratti, questo ci dobbiamo chiedere, con le sue modifiche del meccanismo di reclutamento dei nuovi docenti, avvicina l'università italiana agli standard internazionali? Ora, non c'è dubbio che il modo in cui le nostre università selezionano il personale non vada bene. In Italia oggi si assume il ricercatore che più a lungo è stato in fila dietro a un professore, senza quasi considerare il suo merito (o demerito) scientifico, fatte salve miracolose eccezioni. I concorsi spesso non fanno altro che sancire accordi che i professori ordinari hanno già preso. La riforma vuole migliorare le cose introducendo due cambiamenti: a) un concorso nazionale, con cui si vorrebbe ovviare ai localismi ossia al potere dei baroni di far entrare chi è stato più servizievole e b) un lungo periodo di prova con cui si vogliono stimolare i nuovi assunti a far bene per guadagnarsi la conferma in ruolo. Sarebbero efficaci tali medicine? La risposta deve basarsi su una comprensione profonda del modello accademico americano che la riforma tenta di imitare. Poiché chi scrive ha studiato per anni negli USA, forse ha titolo a dire la sua in merito. In America, le chance degli studenti di trovare un buon lavoro dipendono dal prestigio dell'ateneo presso il quale si laureano. Le università hanno interesse ad assumere il migliore ricercatore sulla piazza perché questo aumenta il numero di studenti che vogliono entrare in quell'ateneo, quindi il livello di rette che l'ateneo potrà imporre (o il livello dei fondi pubblici a cui esso può aspirare, come succede in Inghilterra). Le università anglo-americane sono quindi in competizione tra loro per assumere i giovani migliori. Da noi invece il valore legale del titolo di studio fa sì che la laurea ottenuta presso la peggiore università italiana valga quanto, a fini concorsuali o di assunzione, specie nel settore pubblico, di quella ottenuta nel migliore ateneo italiano. In questo modo, le famiglie non sono affatto spinte a premiare le migliori università e i vari dipartimenti potranno permettersi il «lusso» di assumere i propri amici o figli di amici o simili. In questo stato di cose, il controllo sulla qualità non esiste. Purtroppo, temo che la riforma Moratti non riesca ad introdurlo. La centralizzazione dei concorsi non sposterebbe molto: i professori ordinari continuerebbero a mettersi d'accordo per far passare prima il pupillo dell'ordinario X, poi il pupillo dell'ordinario Y ecc.. Il periodo di prova, poi, allungherebbe di anni il tempo in cui il giovane è sotto ricatto di chi dovrà decidere sulla sua conferma, senza che tale decisione sia «guidata» dall'interesse a premiare la sua bravura. Se non si «costringono» gli atenei ad assumere il migliore, introducendo un interesse degli atenei a che ciò avvenga, il meccanismo del reclutamento non funzionerà mai. E per creare quest'interesse, un passo inevitabile mi sembra quello dell'abbattimento del valore legale del titolo di studio, abolito il quale le famiglie penseranno molto prima di iscrivere un figlio a un'università con una cattiva reputazione. E di conseguenza le università penseranno ancor di più ad assumere mediocri, perché sapranno che questo si tradurrà, prima o poi, in una diminuzione di fondi.

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