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L'ultima sfida di Bejart «Il flauto magico» in chiave moderna

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A PALERMO

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La sua maestrìa creativa lo mette al riparo da inattese débacles anche per le imprese all'apparenza più ardue, come tradurre in danza grandi capolavori della musica di tutti i tempi. Ed eccolo, dopo il ciclico impegnativo Ring wagneriano, tornare a cimentarsi al Massimo di Palermo con Il Flauto magico di Mozart, un balletto presentato nel 1981 al Cirque Royal di Bruxelles e poi alla Fenice di Venezia ed a Milano. Il canto del cigno del genio salisburghese con le sue molteplici valenze massoniche e simboliche assume in balletto le fattezze di una storia esemplare senza tempo e senza età con caratterizzazioni stilistiche diverse (con le "punte", le scarpe con tacchi e con piedi nudi) nel ben noto stile béjartiano, moderno ma di base classica. Sulla falsariga del libretto favolistico di Schikaneder e con l'apporto delle splendide note mozartiane Béjart però non vuol raccontare solo la eterna lotta tra il male e il bene e la iniziazione verso la luce e la saggezza di Tamino e Papageno ( in realtà due facce dell'essere umano, quella intellettuale e quella rousseauianamente "naturale" ed istintuale). Un ruolo giocano anche i colori che distinguono i personaggi: il rosso per Tamino, una calzamaglia candida per l'innocente Pamina, il cilestrino per il goffo Papageno, un luminoso arancione per l'eternamente giovane Sarastro (probabilmente perchè la Città del Sole è un'utopia senza età) con luci che trascolorano dal nero della Notte (della ragione) all' alba (del Nuovo mondo). Pochi ma essenziali gli arredi scenici: un praticabile, tre stilizzati scheletri di piramidi in alluminio, un grande occhio egizio, uno scarabeo scolpito, un compasso. Altre note distintive il grande drago cinese a più corpi in catena, i tre Geni vestiti come circensi clown (Antoine) e la caratterizzazione di alcuni ruoli come il fachiro biondo (Sarastro) e il fauno kabuki (l'ambiguo ministro Monostato) in una sorta di mescolanza tra culture e continenti tipica dell'inventore Bèjart. La maggiore novità è però che la storia viene riletta nel senso di una più universale difficoltà del convivere maschile e femminile, un approdo alla coppia che giunge solo alla fine di un pericoloso itinerario di iniziazione. Nulla inventa di nuovo, dunque, drammaturgicamente Béjart, ma riscrive in termini moderni le motivazioni della storia, astraendola ed universalizzandola. Il che la assolve dal rischio di eccessivo didascalismo e pedissequa fedeltà narrativa. Il ruolo della voce narrante, l' uomo testimone della vicenda una volta affidato a Jorge Donn, era interpretato dal fidato Gil Roman direttore artistico associato del ballet Lausanne.

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