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Lo scrittore non voleva che l'opera fosse pubblicata L' orgoglio ombroso contro «i letterati coccodè»

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Era orgoglioso, ombroso, con un disprezzo per la provincia ipocrita e quelli che lui chiamava i "letterati coccodé". Poteva essere sgarbato, perfino villano e poco riconoscente; ma gli si perdonava ogni cosa per via del talento: scriveva con la naturalezza di un delfino nell'acqua o di un gabbiano in cielo. Ora che hanno girato un film su un suo libro, «L'odore del sangue», mi torna in mente la sera che ci conoscemmo nella piccola casa editrice di Leo Longanesi, in Via Borghetto 5, a Milano. Avevamo poco più di vent'anni: io portavo il manoscritto del mio «Acrobata», lui quello del «Prete bello». Per qualche minuto ci guardammo con mutuo sospetto, come due animali che si annusano e un po' si temono. Ma alla fine andammo a cena da «Bagutta» e diventammo amici per la pelle. Ora dirò perché questo romanzo dal titolo acre («L'odore del sangue») mi risveglia un antico rimorso, che non ho mai avuto il coraggio di confessare. Lo faccio ora, a mo' di espiazione. Dopo un lungo tempo trascorso all'estero, ero tornato a Venezia, ai bordi della Laguna, il mio "liquido amniotico". Era la sola cosa che Goffredo mi invidiava, essere nato e cresciuto a San Marco: «Vedi - diceva - i veneziani camminano e si muovono in maniera diversa dagli altri». «Ma cosa dici?», lo interruppi. E lui, serio: «Guardami bene. Io cammino come un contadino, uno di campagna. Siamo tutti di campagna quelli nati fuori da qui». Era il suo modo di giocare al paradosso, in tutti i suoi libri c'è lo humour tetro di Buster Keaton. Una mattina ci incontrammo da Arrigo, vulgo «Harry's Bar». Lui era con un paio di splendide ragazze, io ero solo. A un certo punto mi parlò di una cosa che lo angustiava: il suo cimitero delle idee nate morte. «In un cassetto - confessò - conservo pagine di romanzi appena cominciati e subito abbandonati; versi randagi; spunti per racconti o film che non vedranno mai la luce. Mi fanno pensare ai milioni di spermatozoi che non arrivano in mèta. Sono i perdenti, gli eterni secondi». Goffredo aveva una bella faccia virile, zigomi e mento ben rilevati, e in qualche misura ricordava l'attore Humphrey Bogart. Come Bogart, aveva il "fascino delle tenebre": prendeva alla gola le sue prede più con il mistero dei silenzi che con il brusìo delle parole. L'altra cosa che intrigava, in lui, era l'inquietudine. Non si sentiva mai a suo agio. Quand'era in viaggio, rimpiangeva la pace della sua casetta sulle sponde del Piave; e quand'era a casa, smaniava dalla voglia di partire, nascondersi nella pancia di un jet per una destinazione ignota, un paesaggio esotico e incontaminato. Come spesso accade tra scrittori, mi domandò "cosa avessi in pentola". Gli risposi, se non ricordo male, che ero "in panne", avevo il trac della pagina bianca. «A chi lo dici - sospirò - Io sono fermo da mesi su un malloppo tristemente autobiografico, un impasto di tradimento e di morte. Ho come la sensazione che dalla mia stilografica esca sangue». Forse era il libro da cui Martone ha ricavato il suo bel film. Ma Goffredo non ne era soddisfatto. Brontolava e sbuffava. A un certo punto disse: «L'ho chiuso a chiave in un cassetto, non ne voglio più sapere». Adesso che è "cosa pubblica", mi chiedo con un filo di pudore: se uno scrittore non pubblica in vita, perché fargli violenza? Perché metterlo a nudo quando non si può difendere? Ecco dunque perché all'inizio ho accennato al mio lontano rimorso. Ma non riguarda la violenza che si è fatta sulle sue carte postume. Goffredo avrebbe voluto che io scrivessi, sul Corriere o su Il Giorno, delle sue "pagine morte". «Non sono uno che va in giro a elemosinare soffietti - disse - Ma un tuo ritratto, sia pure condito con il tuo abituale vetriolo, ecco, a me farebbe piacere». Non promisi nulla, ma tentai di far passare l'idea alla riunione redazionale. Purtroppo, cadde nel vuoto: c'è sempre qualcuno che frena, per pigrizia o per pura invidia. Con questo non nego

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