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Nella profonda fossa di Basovizza diciotto metri di corpi accatastati

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Una la raccolse qualche anno Mixer, la trasmissione di Giovanni Minoli. Il sopravvissuto si chiamava Graziano Udovisi. Il 2 maggio 1945 (a guerra conclusa) era stato legato con il filo di ferro a un compagno. I partigiani titini li avevano allineati, insieme ad altri, sull'orlo del precipizio, e poi li avevano spinti giù. Graziano, caduto nella fossa, era riuscito (non sapeva neppure lui come) a sciogliersi. Si era trovato sott'acqua, in mezzo ad altri corpi. Era riuscito a riaffiorare e, poi, inerpicandosi sulle pareti scoscese, aggrappandosi a qualche ramo e alla terra nuda, era tornato in superficie. Salvo. Lo intervistarono quarantacinque anni dopo, e ancora tremava per il terrore. Quanti furono gli infoibati? Nessuno è in grado di dirlo. Cinquemila, diecimila, ventimila. Prima che tutto finisse, i carnefici incendiarono le carte dei municipi, per impedire ogni genere di contabilità. Mancando i documenti dello stato civile non fu possibile ricostruire il numero dei residenti e, quindi, il numero dei morti. Nel dopoguerra Pier Antonio Quarantotti Gambini, uno scrittore giuliano (nato a Pisano d'Istria) - erede della tradizione di Svevo, di Stuparich di Slataper - scrisse una serie di articoli infuocati e vibranti, per rievocare il martirio della sua gente. Alla vigilia del ritorno dei bersaglieri a Trieste (il 26 ottobre 1954), concluse un ultimo articolo con un ammonimento: "Si guardino le autorità italiane dal venire a Trieste a pronunciare i soliti discorsi conditi di retorica". Aveva sofferto troppo - la sua gente - per sopportare le chiacchiere. Reclamava giustizia, e rispetto. Avrebbe voluto, sicuramente, che l'Italia ne ricordasse degnamente il sacrificio e il dolore. Ecco perché la proposta di dedicare il 10 febbraio al ricordo delle foibe suona come una riparazione, tardiva ma dovuta. È passato più di mezzo secolo, e per troppo tempo i parenti delle vittime (cioè tutti i giuliani, perché non ci fu famiglia che non ebbe i propri caduti) sono stati costretti a subire la rimozione di una tragedia, che è stata - per molte e diverse ragioni (niente affatto onorevoli) - cancellata dalla memoria nazionale. Censurata dai libri di storia (come il "sangue dei vinti"), ignorata dai libri di testo. L'Istria fu stuprata e massacrata soprattutto a partire dall'8 settembre, quando la popolazione italiana dovette subire le feroci vendette dei comunisti slavi. Che colpirono indiscriminatamente, eseguendo gli ordini di capi sanguinari come Motika, Kolich, Rakovac, Massarotto, i fratelli Stemberga. Fu allora che le foibe carsiche cominciarono a inghiottire centinaia di italiani, vivi e morti: divennero fosse comuni, cimiteri senza luce e senza fondo. Foibe nella regione ce ne sono quasi duemila, di varia grandezza e profondità. Abissi verticali, cunicoli oscuri, immense caverne, gallerie lunghe e tortuose, corsi d'acqua urlanti. Paesaggi sotterranei spaventosi e mostruosi, catacombe naturali di dimensioni enormi. Si calcolò che nell'antro di Basovizza giacessero le salme di almeno millecinquecento persone. Lo si dedusse misurando la profondità della voragine, che nel 1939 era stata calcolata in 208 metri e nel 1946 si era ridotta a 190 metri. Diciotto metri di corpi senza vita, avvinti disperatamente l'uno all'altro, nella presa della morte. Quasi 500 metri cubi di cadaveri. Dover calcolare gli uomini a metri cubi: basterebbe questo a offrire una dimensione da genocidio. Basovizza, come Monrupino, Gropada, Vines, Villa Surani, Carnizza, Gallignana. Un elenco lunghissimo di luoghi della vergogna. I prigionieri venivano legati in file di dieci o venti, stretti l'uno all'altro con il fil di ferro che segava i polsi. La fila veniva allineata sull'orlo dell'abisso. Una sventagliata di mitra era sufficiente: il primo che cadeva si trascinava gli altri. Quella catena umana rimbalzava e sbatteva di roccia in roccia, nel buio avvolto dal silenzio lacerato dalle urla. Moltissi

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