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di ENRICO CAVALLOTTI NELLA vita, diciamo cosí, ad essere ottimisti si è prima o dopo vittime ...

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Non vorremmo perciò esser fraintesi se affermassimo che il Teatro dell'Opera di Roma ha ben avviata la nuova stagione lirica: prima con lo storico e felice ricupero della «Marie Victoire» respighiana; ora con «Combattimento e storia di un soldato», dittico elaborato dal geniale Roberto De Simone, il quale ha accostato «Il combattimento di Tancredi e Clorinda» di Claudio Monteverdi a «L'Histoire du Soldat» di Igor Stravinskij. Ed accostandoli ne ha cavata una visione di toni e di contenuti al presente, sotto il segno ed il simbolo dell'uomo che combatte: vuoi per amore, vuoi per rio destino; che sia egli nobile o snob; che sia guerra d'amore polputo o lotta d'ominidi cachettici. L'enorme distanza di stile e di forme fra i due capolavori - ed è questo l'esito sorprendente che piú si è ammirato alla première - è stata come annullata, o sublimata in sintesi, dal talento creativo, non disgiunto dalla profonda competenza culturale e musicale, che assiste il maestro napoletano, il quale ha mescolati i toni alti a quelli gergali, la tradizione aulica a quella folclorica, la lingua italiana alla lingua siciliana. Cosí come all'esecuzione della pagina monteverdiana ha anteposto una versione della tradizione popolare del «Combattimento» tassesco commessa alla recitazione martellante, straniante, virtuosistica, onomatopeica, follemente ritmica, barocca ed alienata di Raffaello Converso, che la voce ha metamorfosato in un gagliardo organico di percussioni. E cui sia indirizzato il nostro massimo elogio. Sul côté musicale, De Simone ha ricreato l'orchestrazione monteverdiana a sette strumenti con un basso continuo costituito da tre strumenti elettronici: lo stesso numero impiegato nel brano stravinskijano che s'è avvalso di una cifra rap a firma di Paolo Romano. Sarebbe marchiano errore formulare un giudizio di valore avendo a riferimento i due capolavori allo stato originario: De Simone ha voluto altro da una loro mera riproposizione. Non una dissacrazione bischera e modaiola come abortiscono i troppi mestieranti del teatro musicale, bensí la ricerca di una linea rossa che discenda dall'Antico e dalle trascorse stagioni e ci dica tuttavia di noi: solo di noi: dei nostri triboli, delle nostre illusioni. Mossa ad un pathos raggelato la regía curata dal Nostro, vale a dire intesa ad un meccanicismo di gesti e d'atti pur intimamente roventi d'affetti; ed al paro suggestivi i costumi, fra leggendario Seicento e tristo Novecento, firmati da Odette Nicoletti, mentre i cantanti assolvevano al còmpito con zelo e non senza virtú, taluno, sotto la parentetica e lineare bacchetta di Vittorio Parisi. Su tutti corruscava la principessa geometrica insieme e sensualissima di Renata Fusco. Insipide le scene di Nicola Rubertelli, ma ben piú brutto però il Teatro Nazionale che le allogava: cinemazzo sconcio, e deturpante qualsivoglia sognería.... Ma quando si deciderà a liberarsene il Teatro dell'Opera? o quando lo rivolterà, l'obbrobrio, come un pedalino onde richiamarvi un pubblico bendisposto? Bendisposto, s'intenda, a colmare la platea: ad effondersi in vibranti consensi a ciò che ammira ed ascolta nelle piú acconce disposizioni d'animo suggeritegli dall'ambiente. L'abito fa il monaco da che mondo è mondo.

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