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Quella musa che Pavese chiamava Circe

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..sono rimasta per molto tempo con questo rammarico, rimorso...». Parla Bianca Garufi, protagonista verso la metà degli anni Quaranta di una storia d'amore con Cesare Pavese, dalla quale nacque un'avventura letteraria di straordinario interesse, il romanzo incompiuto «Fuoco grande, scritto dai due a quattro mani, scomparso per anni dal circuito librario, e ora ristampato da Einaudi nei Tascabili. Nel 1945 Bianca lavorava nella sede romana della casa editrice, in via Uffici del Vicario: la scintilla scocca immediatamente, per lei Pavese scrive il breve canzoniere «La terra e la morte», composto di nove poesie, con lei, psicoanalista junghiana, si confronta sul significato e sull'importanza del mito, un tema-chiave di tutta l'opera pavesiana: proprio da questo scambio di riflessioni nascono i «Dialoghi con Leucò», iniziati nel dicembre del 1945 e conclusi nel marzo del 1947. C'è una dedica preziosa, sulla copia inviata a Bianca, che spiega bene quale ruolo la donna abbia avuto nella genesi di questi «Dialoghetti». «A Bianca — Circe — Leucò/Pavese/ nov. 1947». Tra il febbraio e l'aprile del 1946, i due decidono di scrivere un romanzo a quattro mani, «Fuoco grande», che apparirà soltanto nel 1959, postumo, nove anni dopo la morte per suicidio dello scrittore. È forse la prima volta che Bianca Garufi parla con tanta spontaneità di argomenti che riguardano una sfera privata verso la quale il rispetto è dovuto. Forse la presenza, con noi, nella sua bella casa di Trastevere, della psicoanalista junghiana e poetessa Silvia Martufi la incoraggia. Quando vi frequentavate, ti ha mai dato l'impressione di volersi togliere la vita? No, non potrebbe averlo fatto anche per l'amore per me, si trattava di una grossa, profonda depressione. E poi forse voleva andare a ficcare le mani — e non è facile — nel profondo dell'anima, dei sogni... specialmente a guardare quello che ti dicono le immagini dei sogni, non solo quello che i sogni raccontano... Torniamo indietro. Che impressione hai avuto quando l'hai conosciuto? Molto positiva e attraente, perché abbiamo lavorato subito su qualcosa che lui aveva nel cuore, la mitologia, la Grecia. Lui era una persona straordinaria, aveva una forte sensibilità mitologica, in termini junghiani, aveva un "rapporto con l'anima", gli interessava, per esempio, pensare che Mercurio fosse qualcosa che apparteneva a noi, prima di tutto... Che era così... Un'immagine necessaria all'essere umano per produrre quelle qualità psicologiche che corrispondono alla figura di Mercurio... Quindi c'era un impossessamento del mito fra voi... Sì, un tentativo di essere in contatto con esso, di viverlo, di vederlo nei sogni, nelle immagini, fantasie, nel comportamento insomma. Che vuol dire essere Mercurio? Salvare questo e quello, sapersi comportare, avere una mentalità poetica, in senso buono... Come è nata l'idea di «Fuoco grande», un dialogo di confronto consimile e diverso fra Giovanni e Silvia, dominato perciò dal tema dell'incomunicabilità, da una sfida fra le due scritture? Due voci diverse anche nel romanzo, che poi tu hai proseguito da sola, con il romanzo «Il fossile», che apparve nel 1962. Senti, se tu sapessi come Pavese è stato maestro di "schola", per le virgole, la punteggiatura, per tutto quello che c'è di più minuzioso, insomma... una fissazione. Ho imparato molto da lui, mi chiedeva sempre perché mi interessavo di questo e di quello, e mi diceva "Sasso che rotola non raccoglie muschio". Era dunque severo con te Nei miei riguardi è stato sempre con il frustino in mano, ma in modo tale che io gli ero grata. Non ne avevo bisogno, ma mi piaceva che mi insegnasse cose che io già sapevo, perché ci teneva vicini, avevamo le stesse idee... Però gli piaceva abbandonarsi alla fantasia, anche, e la mia portava verso questo mondo

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