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di ENRICO CAVALLOTTI «DIN-din, bum-bum, cra-cra, tac-tac; e din-din, bum-bum, cra-cra, tac-tac.

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L'arte, in genere, ha di fascinoso che, al contrario della vita (acerrima sua nemica), può assurgere al vertice di sé assumendo a materiale delle assolute inezie. La vita s'agghinda di tregende, eroicheríe e triboli, oppure d'estasi, deliquescenze e raptus: casi madornalissimi, insomma. L'arte no. I suoi contenuti non contano punto: anzi, quanto piú sono vitrei ninnoli, tanto piú l'alata Musa è incline ad imprimere alla forma estetica vertiginosi ghirigori, linee risplendenti nei secoli, messe di canti inoppugnabili. «Din-din, bum-bum, cra-cra, tac-tac» vanno cantando con feroce ilarità i personaggî della rossiniana «Italiana in Algeri», in scena da iersera al Teatro dell'Opera di Roma. Sono personaggî contigui all'alto Reame della follia: là dove le contraddizioni e le illogicità magicamente svaniscono sotto la luminaria di un'adempiuta armonia cosmica. Personaggî per modo di dire: in realtà, membri di un unico, corrusco monumento di suoni. Ben noto il plot: Mustafà, bey d'Algeri, noiato dalla moglie Elvira, brama la schiava italiana Isabella, che fingendo di corrisponderci, lo riduce ad un «Pappataci»: per mezzo del quale stratagemma essa con tutti gli schiavi italiani in Algeri può imbarcarsi ed abbandonare le arene africane. Ma e chi è un «Pappataci»? È un pirla assoluto che, volendo abboffarsi di sesso debole notte e dí senza requie, è costretto a cessare da ogni altra pratica che non sia pappare, trincare, dormire e starsene zitto come un pesce, qualsivoglia evento accada dinanzi ai suoi occhî allocchi. Allegria, parossistico frizzío, ordine indefettibile della scrittura, architetture geometriche, soavità e leggerezza di tinte, e «crescendi» travolgenti: ordigni strumentali e vocali d'una finezza calligrafica. «Ecco la perfezione del genere buffo. Nessun altro compositore vivente merita una simile lode» notava Stendhal nel 1832, rapito dagl'incantesimi de «L'Italiana in Algeri». Questa musica imparadisata, d'un genio poco piú che ventenne (coadiuvato dall'ottimo librettista Angelo Anelli), era fra le poche italiche dell'Ottocento che per raffinatezza, bellezza e dottrina potevano essere accostate ai sommi del Classicismo viennese: e fra le pochissime nostre in grado di fronteggiare la rivoluzione della prima «Romantik» tedesca; l'unico autore nostro che il demone mozartiano avrebbe volentieri tenuto a fratello. Gli altri operisti italiani, dopo Rossini, sarebbero discesi da quell'Olimpo a quaggiú, per mettersi a far esagitata cronaca di moti interiori e di rovelli varî: psicologici e mondani. La discesa segnava la mesta conclusione dell'età aurea della musica italiana. Con esito plausibile la presente edizione dell'«Italiana» s'avvale dell'allestimento del «Massimo» di Palermo, per la svelta regía di Maurizio Scaparro. Sovente rimarcata la fantasia vorticosa del capolavoro dalla favolistica scenografia di Lele Luzzati, il migliore in campo, e dalla gioiosa costumista Santuzza Calí: sarabanda di colori e movimenti in riva al Mediterraneo. Volenteroso il cast vocale ove hanno primeggiato il tenore Juan Diego Florez (Lindoro), Bruno De Simone (Taddeo) e Ildar Abdrazakov (Mustafà). Non hanno demeritato Daniela Barcellona (Isabella) e Carla Di Censo (Elvira). Applausi per tutti, non escluso il giovane direttore Riccardo Frizza.

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