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di NANTAS SALVALAGGIO FU UNA «domenica bestiale», come nella canzone.

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La nostra casa era ai bordi della Laguna, nel popolare sestiere di Cannaregio. Le finestre della mia camera davano sul cortile dei frati, odoroso di lavanda e basilico, e sfruttavano l'ombra di uno dei più alti campanili della città: quello della Madonna dell'Orto. Mio padre Ernesto, elettrotecnico in Centrale, poteva contare su una discreta agiatezza, ma con sei figli in età scolare non poteva certo consentirci una vita di sprechi. E tuttavia, in quegli anni grami del primo dopoguerra, agli occhi dei vicini potevamo apparire una famiglia privilegiata. A differenza di alcuni miei compagni, figli di operai disoccupati, noi portavamo delle scarpe decenti, abiti non rattoppati, e d'inverno avevamo perfino il cappotto. Ma la cosa che ci distingueva più di ogni altra era la nostra barca legata alla riva del canale. Si trattava di un guscio modesto, un sandolo a remi pittato di vernice nera, con le forcole di faggio e la prua che finiva con un ferro ricurvo, a riccio. Ma insomma, faceva la sua figura. Nei giorni di festa, quando partivamo in gita verso le isole dell'Estuario, i miei compagni si riunivano in gruppo e ci salutavano con la mano, come se fossimo l'equipaggio di «Luna Rossa» in partenza per la Coppa America. Ma quella domenica, che nei piani dell'Ernesto doveva essere speciale, gli elementi della Natura e i ghiribizzi del Fato congiurarono contro di noi. E qui provo a dire come e perché. Il primo errore di mio padre fu di imporre alla nostra barchetta un «salto di qualità». E tenendo conto che già soffriva di qualche acciacco, e che non se la sentiva più di vogare quattro ore piene fino all'isola di Vignole o Sant'Erasmo, aveva collocato un piccolo motore a poppa, e un esile palo sul trasto di mezzo, per una modesta vela fatta in casa con due lenzuola. Si può immaginare l'emozione di noi ragazzi, la cui età variava dai due anni di Mirco ai miei dodici. «In fondo» disse serio mio padre, «avremo un piccolo yacht, potrà filare tanto a vela che a motore». Ma mia madre, che s'era alzata alle cinque per preparare la minestra di riso e patate e le uova sode, aveva un'aria perplessa. Come a suggerire, «mai dire gatto se non ce l'hai nel sacco». Una cautela che si fondava su qualche avvisaglia climatica. E difatti, non appena entrammo in Laguna dalla parte del Casino degli Spiriti, ci accorgemmo che l'acqua era piatta come una lastra di lamiera. Il cielo pareva un immenso catino fumigante: non un'onda che ci venisse incontro, né un alito di vento. Così che la nostra misera vela, appena issata sul mini-pennone, ricadde su se stessa come uno straccio bagnato. Allora io guardai papà Ernesto, ex ufficiale dei granatieri, che non era tipo da arrendersi per così poco. Anche gli altri miei fratelli lo fissarono ansiosi. Solo mamma Dirce, che era lo spiritaccio della famiglia, ruppe il ghiaccio: «E allora, capitan Nemo, come la mettiamo?». «Niente paura» declamò l'Ernesto, corrugando la fronte: «Prima o poi la bonaccia passerà, troveremo il vento; e intanto metto mano al motore». Già, il motore! Papà l'aveva comprato da un robivecchi, e l'aveva collegato a un'elica di tutto rispetto. Adesso era giunto il momento della verifica; ma prima di accenderlo volle assicurarsi che fossimo pronti per il balzo improvviso. «Tenetevi forte alle bande!», ordinò. E esortò mamma Dirce a tenere stretto al seno quel discolo di Mirco. L'Ernesto tirò la cordicella dell'accensione. Io chiusi gli occhi, con il cuore a cento. Ahimé, non successe niente. Sulla laguna placida come uno stagno, il vecchio motore emise solo un breve sibilo, quasi un guaito di cane. Poi il silenzio. E malgrado gli sforzi dell'Ernesto, conditi da irripetibili maledizioni, non ci fu verso di far girare l'elica. Sudato, ma non domo, l'Ernesto cercò di spiegare le cause della débacle: «Adesso capisco perché non parte: devo aver sbagliato la miscela». E così ammainammo la vela e tornammo ai remi. Ma a costo di romperci le ossa dalla fatica, raggiungemmo ugualmente l'isola

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