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La monarchia sottovalutò la forza di quanto accadde nelle piazze

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La resipiscenza della monarchia e dei fascisti dissidenti non solo si consuma in ritardo, ma dimostra subito di non essere all'altezza della situazione». Sono parole di Roberto Chiarini (nella foto), storico contemporaneista, docente presso la facoltà di Scienze Politiche dell'Università Statale di Milano, nonché studioso fra i più stimati di quei drammatici giorni della nostra storia nazionale. «Per comprendere ciò che accadde quella notte - spiega Chiarini - occorre fare un passo indietro, ricordando la lunga catena di scacchi militari incassati dall'Italia. Dopo le pesanti sconfitte, molti gerarchi incominciano ad intravedere lo spettro del tracollo del regime e del partito fascista. Nello stesso tempo, si avvertono anche i primi cedimenti del "compromesso autoritario": la grande borghesia economica e finanziaria, la Chiesa, la monarchia e i poteri amministrativi dello Stato, pur non avendo avuto la forza di fermare la mano di Mussolini al momento di entrare in guerra, non sono più disposti a rimanere inattivi davanti ad una situazione che non è in grado di garantire i rispettivi interessi . È in questo contesto che matura un fronte di forze che punta a mettere fuori gioco almeno i maggiori responsabili del disastro, nel vano tentativo di salvare sé stessi. Il compromesso autoritario salta, perché al punto in cui si era giunti i costi di quel patto erano diventati troppo onerosi. Il rischio era che la fine annunciata del regime trascinasse nel fallimento anche tutti gli altri attori, soprattutto la monarchia, che portava la pesante responsabilità di avere coperto tutte le scelte del duce. Era urgente trovare una via d'uscita che "mollasse" Mussolini e salvasse tutto il resto. Gli stessi fascisti promotori del voto del 24-25 luglio, fatta eccezione per Grandi, puntavano a un fascismo senza Mussolini». Del resto, è noto che quando Badoglio sottopone a Vittorio Emanuele III l'ipotesi d'inserire nel nuovo ministero una personalità democratica, il re liquida sprezzantemente l'idea definendo gli antifascisti dei «revenants». «Si tratta - precisa il professore - del primo passo falso che la monarchia compie lungo la strada di una possibile rilegittimazione democratica della corona in vista del dopoguerra. La monarchia sottovaluta quanto accade nelle piazze, dopo l'annuncio della caduta di Mussolini. Gli italiani in quelle ore certificano che non vogliono più saperne né del duce né del regime». Badoglio, però, compie alcuni passi verso lo smantellamento delle istituzioni del ventennio, sciogliendo il Pnf e le organizzazioni da esso dipendenti, abolendo il Gran Consiglio e il Tribunale speciale e sopprimendo la Camera dei Fasci e delle Corporazioni. «Tutto questo, però, non basta. La sostanza resta illiberale - ribatte il professore - Badoglio non favorisce la riorganizzazione dei partiti antifascisti, anzi ne evita il riconoscimento e frappone molti ostacoli all'esercizio delle loro attività. Il fossato fra la monarchia e le forze politiche candidate a incarnare la causa del riscatto della nazione, invece di restringersi si allarga, per divenire presto incolmabile. Il collasso del partito-Stato e l'inettitudine della monarchia nel dare risposte concrete ai drammatici bisogni del momento - conclude Chiarini - pongono le premesse per un processo di progressiva erosione del senso dello Stato e della nazione». Quarantacinque giorni dopo, l'8 settembre, il maresciallo Badoglio annuncerà alla radio la firma dell'armistizio. A quel punto, «l'erosione dello Stato», diventerà «morte della Patria».

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