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di FRANCESCO CARELLA CINQUANT'ANNI fa l'Italia "rischiò" di diventare maggioritaria.

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La proporzionale lasciava il posto a una nuova legge elettorale, che prevedeva un forte premio di maggioranza, il 65% dei seggi, al gruppo di liste che avesse raggiunto almeno la metà dei voti più uno. Quando, però, furono aperte le urne, per il Presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi (nella foto), che quella legge volle a tutti i costi, fu una doccia fredda: il premio di maggioranza non scattò per un soffio, all'appello mancavano 54.968 voti. Ai più attenti osservatori politici risultò subito chiaro che con il fallimento della legge maggioritaria, che venne abrogata nel giugno del '54 da un voto della Camera su proposta di Pietro Nenni, sarebbe calato il sipario anche sull'era degasperiana. Infatti, a distanza di un mese, il 15 luglio, lo statista trentino vara il suo ottavo Gabinetto, un monocolore democristiano con l'appoggio esterno dei monarchici e l'astensione di Psdi, Pri e Pli, ma il 28 luglio il Parlamento gli nega la fiducia. De Gasperi decide di passare la mano. Il dibattito sul significato della "legge truffa", così battezzata dal giurista Piero Calamandrei, è stato al centro della pubblicistica e della storiografia italiana per molti decenni. Lo storico Paolo Pombeni, nel quinto volume della laterziana «Storia d'Italia» curata da G. Sabbatucci e V. Vidotto, scrive: «Un fattore certamente presente era la volontà degasperiana di affrancarsi dalla tutela della dialettica dei partiti, per tornare alla libertà di manovra dei governi ottocenteschi. A questo si aggiungeva il desiderio contingente di liberarsi dai ricatti e dalle pressioni della "destra cattolico-clericale", come lo stesso De Gasperi confidò a Nenni». Occorre, inoltre, ricordare che la scelta di De Gasperi matura, mentre il Vaticano si adopera, attraverso la mediazione di Luigi Sturzo, affinché nel Paese si costruisca un blocco moderato tra la destra monarchica e fascista e la stessa Dc. L'esperimento avrebbe dovuto avere il battesimo politico nelle elezioni amministrative, per il Comune di Roma. Il disegno, come si sa, non passò. Furono contrari i partiti laici minori, ma contrarissimo fu De Gasperi. Questi era convinto che la barra della Dc dovesse essere mantenuta al centro e che dovesse essere respinto ogni slittamento sia verso destra che verso sinistra. In un siffatto contesto politico prende forma il progetto di riforma elettorale, presentato nell'ottobre '52 da Mario Scelba, e incardinato attorno a due principi chiave: mantenimento dello scrutinio di lista su collegi plurinominali e revisione del meccanismo di riparto proporzionale, a patto che si superi una determinata soglia di consenso. Il dibattito alla Camera per l'approvazione della legge fu incandescente. L'approvazione arrivò dopo cinquantasette sedute e un totale di 340 ore di discussione, con momenti di grande tensione sia in aula che per le strade delle città italiane. Quando la legge approdò al Senato il clima furente portò addirittura alle dimissioni del Presidente, Giuseppe Paratore. Il successore, il senatore Meuccio Ruini, già ministro delle Colonie nel Gabinetto Nitti, il primo giorno dichiarò: «Affronto quest'opera con la stessa fermezza con la quale andai, con i capelli già grigi, sul Carso». Il Senato approvò la legge alle 15.55 del 29 marzo '53. Due mesi dopo, giunse la bocciatura da parte degli elettori. E se il 7 giugno di cinquant'anni fa il quorum fosse stato raggiunto? Per affrontare l'argomento oggi, presso la sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, si terrà un convegno sul tema «Meuccio Ruini: la presidenza breve». Sarà presente il Presidente della Repubblica Ciampi. Tra i relatori anche il senatore Giulio Andreotti. Contemporaneamente sarà inaugurata la mostra «Fu vera truffa? Stampa e manifesti del 1953» che da domani sarà aperta al pubblico sino al 6 luglio, tutti i giorni dalle 10 alle 18.

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