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«WE ARE THE FUTURE» INIZIATIVA SULLA SCIA DI «WE ARE THE WORLD» DEL 1985

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Quincy Jones dalla soul music all'impegno pacifista

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Con il patrocinio del sindaco Walter Veltroni, il progetto rappresenta un'iniziativa concreta per lo sviluppo del dialogo internazionale a sostegno dei giovani che vivono nelle zone di massimo conflitto. Accanto a Quincy Jones sono apparsi in Campidoglio artisti internazionali, del calibro di Noa, Khaled, i Corrs e Carmen Consoli, l'unica artista italiana coinvolta. Il lancio di «We are the future» chiude un cerchio ideale con la storica iniziativa del 1985, «We are the world», prodotta da Jones, che, come e più di allora, manifesta il suo ottimismo: «I conflitti globali e le guerre stanno determinando conseguenze che coinvolgono profondamente così tanti bambini del mondo, influenzandone il destino: io sono certo che loro conservano, nascosta in loro stessi, la chiave per una possibile soluzione». Ma al di là della notevole iniziativa, la presenza di una assoluta autorità musicale di questo calibro permette di estendere il campo delle riflessioni. 70 anni, nato a Chicago, Jones è l'unico musicista in grado di vantare profonde collaborazioni con jazzisti di tutte le generazioni e le provenienze stilistiche, da Charlie Parker a Dizzy Gillespie, da Charles Mingus a Miles Davis. Ma la sua influenza come produttore, compositore e arrangiatore si è estesa a cantanti quali Frank Sinatra, Ray Charles e Nat King Cole. A partire dagli anni Ottanta più che significativa è la sua presenza nel mondo della soul music, del funky, del rap o dell'hip hop, valga per tutti la stretta collaborazione con Michael Jackson. Maestro Jones, siamo ad un nuovo «We are the world»? «No, perché ogni epoca ha le sue caratteristiche. Credo però che questa iniziativa sia umanamente ancora più importante. Dobbiamo far capire a questi ragazzi cosa accadrà nel 2020. Mi sento orgoglioso di far parte di questo gruppo». Lei in tutta la sua vita si è occupato prevalentemente di black music: qual è in questo momento la situazione negli Stati Uniti? «Meno brillante rispetto a quanto vi fanno credere in Europa. Ho sei figli, la loro età varia da pochi anni a cinquant'anni, e l'unico genere che macina quattrini e il rap, o meglio l'hip hop». Non ama molto il genere? «Per certi aspetti il fenomeno è più letterario che musicale. Spesso è un fenomeno di violenza. Anche mia figlia ha rischiato di essere coinvolta quando è stato ucciso Tupac Shakur a Los Angeles. Per fortuna quel giorno non era in auto con lui. All'inizio il rap è nato come espressione di una classe media con propositi civili, poi è degenerato». Quale sarà il suo prossimo impegno? «Sto registrando nuovo materiale per la mia etichetta. Ci sarà molto blues, come sempre. Il 23 giugno a New York, alla Carnegie Hall dirigerò un tributo a Peggy Lee, grande cantante di jazz. Ci saranno anche Nancy Sinatra e Petula Clark».

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