di LORENZO TOZZI OGNI volta che torna a Roma è un trionfo annunciato.
E al termine di una replica di «Sly» vi ha ricevuto, insieme con il sovrintendente Francesco Ernani e al regista Maurizio Scaparro, il prestigioso premio Cappelli in una festosa atmosfera di ristretti amici e fans. Intervistarlo è degno delle avventure di un James Bond o di uno Schwarzenegger. Bisogna dribblare agenti, guardie del corpo, controlli, e giungere sino al suo camerino, ma non prima di aver atteso l'abbraccio con i fans con tante foto e autografi di rito. Ma molti altri restano ad attenderlo ancora fuori dal teatro in affollata ressa. Così quasi miracolosamente alla fine Domingo riesce a chiudersi la porta del suo camerino alle spalle e a concedersi alle domande, mentre nel suo accappatoio di spugna a righe blu inizia a struccarsi dinanzi allo specchio, in compagnia della moglie Marta che lo ha guidato anche in questo «Sly». Domingo, lei lavora spesso sotto la regia di sua moglie. Le agevola la vita in palcoscenico? «Come per tutti accade anche nella vita reale. C'è qualcuno che non è diretto dalla moglie? Ha lasciato la sua carriera per essermi vicino, dalla platea è stata prodiga di consigli. Ho imparato molto da lei». Prova ancora emozione ogni sera a cantare? E che cosa le ha dato in più interpretare, qualche giorno fa, l'Inno del Papa ad Ancona? «Era un pezzo nuovo di Tutino. Fare qualcosa di nuovo è sempre bello perché rendi un servizio alla musica ed ai compositori di oggi che hanno bisogno degli interpreti affinché la loro musica sia conosciuta. Poi, le parole del Santo Padre, persona tanto carismatica... Mi hanno fatto vibrare». L'opera lirica è solo un fatto storico, culturale, un oggetto da museo o... «Non è museo per niente. È qualcosa di vivo, vivissimo che fa palpitare ogni giorno milioni di persone in tutto il mondo. Anche un angolo di museo del resto può dare emozioni, ma la musica è viva nel momento in cui si rinnova con il pubblico e gli artisti. Dopo tanti anni di canto ti rendi conto di quante generazioni sono cresciute alle tue spalle. Spesso rivedo spettatori che venivano da bambini a teatro e oggi sono adulti e vengono coi loro figli». Ma non c'è più melodramma dopo una certa data, magari dopo Turandot, Wozzeck o Rake's Progress...? «Si scrivono ancora opere nel Duemila, ci sono molte nuove partiture per il teatro. Quanto poi vivranno questi pezzi non lo so. Ma nemmeno quando Alban Berg scrisse Wozzeck o Lulu si poteva profetizzare che queste opere sarebbero sopravvissute. Ora hanno una loro vita e restano nel repertorio». Che cosa può la musica per i giovani, per la società di oggi? «La musica è qualcosa di fantastico se solo pensiamo che ogni giorno nutre i ragazzi. A Washington e Los Angeles facciamo molte recite per i giovani e loro imparano presto il mondo dell'opera. Il futuro del melodramma sono i giovani, così come per la società. Io faccio molto per loro ma con rigore. E intendo giovani sia come pubblico che come artisti». Farebbe ancora film opera come la Carmen o i Pagliacci? «Sì. Certo il cinema è diverso dal teatro. Ma resta nel tempo». E il concerto dei Tre tenori lo ripeterebbe? «Abbiamo già qualche appuntamento per quest'anno. Ci giungono sempre molte richieste, ma la difficoltà vera sta nel trovare le date che vadano bene per tutti e tre. Non siamo mai liberi nello stesso momento». Tornerà presto a Roma? «È probabile. Ho proposte sia dal Teatro dell'Opera che dall'Accademia di Santa Cecilia. E in questa città vengo sempre con piacere. Intanto mi godo il bel premio ricevuto. Compii tanti anni fa i primi passi all'Arena di Verona, proprio con Carlo Alberto Cappelli, grande esperto di teatro. Con lui ho vissuto momenti felici». Prossimi appuntamenti con l'Italia? «Tornerò il prossimo mese alla Scala a fare la zarzuela Luisa Ferranda di Moreno Torroba ed è questo l'appuntamento più vicino. È un ruolo che mio padre e mia madre hanno interpr