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di SERGIO DI CORI LOS ANGELES — È considerata dalla critica la più promettente tra le ...

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Ora, con «Homeless at Harvard», appena uscito in Usa, Thora Birch ha entusiasmato ancora sia critica che pubblico gettando la propria sfida alle più consolidate tra le star hollywoodiane. Come si sente ad essere considerata oggi tra le più quotate tra le giovani emergenti nel cinema americano? «Siete stati voi giornalisti ad aver stabilito che io sono una star. Io mi sento ancora una ragazzina che vorrebbe fare l'attrice da grande». Non le sembra di essere troppo modesta? «Ho scelto di fare l'attrice, per superare la mia timidezza. Ho sempre detestato l'arroganza che hanno molte mie colleghe. È tutto effimero. Oggi sei una grande star, domani una poveretta fallita. L'importante è credere nel lavoro e cercare di fare il meglio che si può». È stata fortunata o soltanto bravura? «La mia fortuna è stata quella di avere subito la possibilità di poter lavorare con grandi attori dai quali ho imparato molto. Sia con Spacey che con la Bening è stato un ottimo impatto e una scuola niente male. Poi c'è anche il fatto che anche se sono giovane ho una faccia da bambina e quindi gli attori navigate hanno la tendenza naturale a cercare di adottarmi, il che mi va benissimo. Non mi lamento, anzi. È proprio ciò che cerco, che voglio. Credo che gran parte della confusione nel mondo di oggi soprattutto tra noi giovani sia per l'appunto la mancanza di maestri e di padri e di madri. In questo senso io sono stata davvero fortunata». Le giovani americane cominciano a considerarla come punto di riferimento, nonostante i suoi personaggi siano molto lontani da ogni atteggiamento mondano o spettacolare, secondo lei a che si deve? «Forse per il fatto che mi accettano per quello che cerco di essere: una giovane professionista e non soltanto una bambola da esporre. Credo che il cinema si sia evoluto: non si cercano più soltanto delle pupone stupide, sia produttori che pubblico. Per chi inizia la carriera ora e non ha un fisico procace battersi per la propria dignità professionale è una sfida». Lei è diventata famosa soprattutto in Inghilterra, come mai? «Forse è perché sono un temperamento sofferto dentro e in questo senso mi sento vicino alle inglesi. Uno dei miei grandi miti è Glenda Jackson, un'attrice che qui in America nessuno si ricorda che sia mai esistita. A me di Marilyn Monroe, francamente, non me ne importa un fico secco, non lo capisco neppure come mito. Io vorrei essere come la Jackson, o Vanessa Redgrave. Nel caso, crescendo, dovessi diventare anche bella, cosa di cui dubito molto, va bene anche Jacqueline Bisset. Come vedete, sono tutte inglesi, forse non a caso».

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