
La sosta davanti al cancello è reato

I giudici: se l'auto impedisce l'accesso ai proprietari di casa è violenza
Piazzare la propria automobile davanti a un cancello, così da impedirne l'utilizzo ai proprietari, non rappresenta un semplice sfregio. No, tale condotta è assai più grave di quanto possa apparire, e, come sancito dalla Cassazione, è sufficiente per subire una condanna per il delitto di «violenza privata», punibile, secondo il Codice Penale, «con la reclusione fino a quattro anni». Così si è conclusa un'assurda vicenda cominciata diversi anni fa in provincia di Trapani. A dare il "la" allo strano processo è stata la denuncia presentata da una donna, infastidita perché un uomo «le aveva impedito per alcuni giorni la chiusura del cancello posto sul limitare della sua proprietà e il transito attraverso tale apertura». Rapide indagini hanno permesso di accertare che l'uomo non solo «aveva parcheggiato la propria vettura» esattamente davanti al cancello, ma vi «si era anche seduto» e in alcuni momenti si era fisicamente «steso nell'area di battuta del cancello» per renderne impossibile la chiusura. Inevitabile il processo. E i giudici della Corte d'appello di Palermo hanno reputato punibile l'uomo, la cui linea difensiva, centrata sull'idea di protesta pacifica per la scelta della donna di impedire – con l'installazione del cancello – il passaggio ai suoi vicini (cioè l'uomo e i suoi familiari), è stata ritenuta non sufficiente a giustificare la condotta che aveva causato lo scontro giudiziario. Così, in Appello, a metà ottobre del 2017, l'uomo è stato riconosciuto colpevole di «violenza privata». Questione chiusa? Assolutamente no, perché l'uomo ha scelto di proporre ricorso in Cassazione, ribadendo la tesi della legittimità dei comportamenti tenuti. Tale tesi è stata però respinta anche dai giudici del Palazzaccio, i quali hanno specificato che «il requisito della violenza privata» si identifica in «qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente la persona offesa della libertà di determinazione e di azione, potendo consistere anche in una violenza ‘impropria', che si attua attraverso l'uso di mezzi anomali» – come l'automobile o, come in questo caso, il corpo – «diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione». Secondo i magistrati è evidente, in questa vicenda, «la forza intimidatrice correlata all'azione ostruzionistica messa in atto dall'uomo», anche se «priva dei connotati della violenza o della minaccia». Ciò che appare lapalissiano, infine, è il fatto che l'uomo abbia voluto consapevolmente «esercitare una coazione sulla donna, la quale si è ritrovata a subire una situazione non corrispondente al proprio volere». Nessun dubbio, quindi, anche per i giudici della Cassazione sulla lettura da dare ai comportamenti tenuti dall'uomo. Consequenziale la conferma della sua condanna per il delitto di violenza privata.
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