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Girolimoni, il «mostro» innocente Girolimoni, il «mostro» innocente

Fu accusato di aver ucciso quattro bambine fra il 1924 e il 1927 Venne prosciolto ma il suo nome è rimasto sinonimo di pedofilo Fu accusato di aver ucciso quattro bambine fra il 1924 e il 1927 Venne prosciolto ma il suo nome è rimasto sinonimo di pedofilo

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Chi ha almeno cinquant'anni lo ricorda bene. Se facevi commenti su una ragazza molto più giovane di te, scattava immediata la domanda gonfia di sarcasmo: «Ma che sei Girolimoni?». Un cognome usato come sinonimo di mostro, per deridere, offendere o semplicemente come scherzoso paradosso. Eppure Gino Girolimoni, accusato di aver ucciso quattro bambine e avere abusato di altre due nei quartieri popolari della città eterna fra il 1924 e il 1927, era innocente. Le prove a suo carico vennero spazzate via come castelli di carta dal vento delle prime verifiche. Contro di lui non si riuscì neanche a imbastire il processo: venne prosciolto nel 1928. Ma il sospetto lo corrose, divorò la sua esistenza e, alla fine, lo uccise. E la verità giudiziaria non trionfò mai su quella custodita dall'immaginario collettivo: essere «un Girolimoni» continuò ad equivalere a «depravato» e a indicare un pedofilo. Tutto ha inizio il pomeriggio del 31 marzo 1924. Sono le 18. Emma Giacomini, 4 anni e mezzo, e il fratellino di due stanno giocando sotto gli occhi della bambinaia nei giardini di piazza Cavour. Un attimo di distrazione e la donna perde di vista i piccoli. Scattano le ricerche. Ma i due sono scomparsi. Emma verrà trovata due ore più tardi in un orto nei pressi di piazzale Clodio. Una signora sente dei lamenti nel buio e scopre la bambina sotto shock, che tiene in mano le sue mutandine. Stretto forte intorno al collo ha un fazzoletto a sfondo grigio-verde. Il fratellino era stato abbandonato davanti a un cinema di piazza Cola di Rienzo: «Un signore - racconta il piccolo - ci ha portati in un caffè, ci ha offerto delle paste e dei cioccolatini. Era gentile. Poi mi ha lasciato davanti al cinema ed è andato via con mia sorella». Emma aveva contusioni ed escoriazioni ai genitali e al collo ma non era stata stuprata. Qualcuno o qualcosa aveva disturbato il suo assalitore, descritto dai testimoni come un uomo oltre i 50, snello, il viso scarno, alto circa 1,70, addosso un cappotto scuro e un cappello nero. È il debutto del pedofilo-killer. Trascorrono più di due mesi. Verso le otto di sera del 4 giugno, Bianca Carlieri, tre anni e otto mesi, detta «la biocchetta» per la sua mansuetudine e per una menomazione alla mano, sta giocando tra via del Gonfalone, dove abita, e via Giulia. Un signore alto, con un soprabito grigio, le promette delle caramelle e la porta via con sé. Il suo corpo violato e privo di vita sarà scoperto la mattina seguente da una donna che raccoglie la cicoria vicino alla basilica di San Paolo, lungo la ferrovia. L'autopsia conferma che la bambina ha ano e vagina lacerati e «sanguinolenti» e tracce di soffocamento. Ma non è finita. Alle 15,30 del 24 novembre Rosina Pelli, due anni e mezzo non ancora compiuti, viene prelevata da un uomo con un paletot marrone sotto al braccio mentre gioca con le sorelline in piazza San Pietro, non lontano da dove vive con i genitori. La mattina del giorno seguente il suo cadavere seminudo e brutalmente violato viene scoperto da un fornaio sul «prataccio» della Balduina. Ha «vastissime lacerazioni ai gentiali», recita l'esame autoptico. Ai funerali di Rosina partecipano oltre centomila persone, che chiedono vendetta. Nei rioni poveri della città è ormai psicosi. L'opinione pubblica vuole un colpevole. La fascistizzazione dell'informazione è già in atto. E, in un Paese che si sta preparando alla dittatura mussoliniana, l'ordine pubblico è «un imperativo»: non si può tollerare che il «mostro» sia ancora libero. L'enfasi, quindi, è enorme. La pressione sugli investigatori cresce a dismisura. Il maniaco se ne infischia. E colpisce di nuovo. All'alba del 31 maggio 1925 un netturbino scopre sulle sponde del fiume, all'altezza del lungotevere Gianicolense, il corpo martoriato di Elsa Berni, sei anni, scomparsa la sera prima mentre è davanti alla sua abitazione di Borgo. Arriviamo al 13 marzo 1927. Armanda Leonardi viene trovata morta sotto una coperta in un prato dell'Aventino. Anche lei mezza nuda. Insanguinata. Anche in questo caso il decesso è avvenuto per strangolamento. Anche lei aveva vissuto solo sei primavere. La sera prima giocava sotto casa, al rione Ponte. Ma l'Ombra se l'era portata via. Il 9 maggio l'agenzia Stefani dà il grande annuncio: il «mostro» è stato catturato, l'incubo è finito. All'inizio di aprile una «servetta di casa», Olga, tredicenne, rivela al suo padreone, l'ingegnere Dante Pacciarini, che un uomo le fa il filo. Pacciarini, attende che lo sconosciuto si rifaccia vivo. Quando succede, annota i numeri di targa della sua Peugeot verde e informa la polizia. Quell'auto è di Gino Girolimoni, 38 anni, un fotografo che si occupa di infortunistica e ha una stanza in via Boezio, non lontano dai luoghi di alcuni dei «fattacci». A parte quelle testimoniali (stimolate da una taglia di 50 mila lire), che poi cadranno come frutti maturi dall'albero, le prove elencate dalla Questura contro di lui oggi farebbero ridere. Un esempio? Nell'armadio aveva 12 abiti, segno che era un «trasformista» e usava quei vestiti per colpire e sfuggire alla polizia. Ma Girolimoni non ride. Lo spingono in tutti i modi a confessare. Ma «l'immondo essere», come viene definito dalla stampa, non confessa. Finisce in isolamento a Regina Coeli per quattro mesi. Ma continua a professarsi innocente. E nessuno gli crede. Lombroso docet: «Ha due occhi stranissimi, dal taglio quasi mongoloico; lo sguardo è obliquo, falso, sfuggente», scrive «L'Impero». L'assassino ha i baffi e Girolimoni non li ha mai avuti? Non importa. Se li è tagliati apposta. Non è vero, ma non importa. Addirittura gli si attribuiscono altri delitti, come l'omicidio di uma bimba a Padova nel 1919. Per fortuna c'è un giudice anche a Roma e, l'8 marzo 1928, Gino Girolimoni viene prosciolto «per non aver commesso il fatto». Durante la sua carcerazione, il commissario Giuseppe Dosi ottenne la riapertura del caso. Il regime, però, aveva già un suo colpevole perfetto. E lo sforzo di Dosi venne «premiato» con l'arresto e l'internamento per diciassette mesi in un manicomio criminale. Anche perché Dosi aveva individuato un altro possibile «mostro»: Ralph Lyonel Brydges, pastore protestante alla Holy Trinity Church di via Romagna. Il religoso era stato fermato a Capri per aver adescato una bambina di sette anni. Sicuramente era un pedofilo e, secondo il commissario, anche l'assassino delle piccole romane. Però era inglese e Mussolini voleva mantenere buoni rapporti con il Regno Unito. E Girolimoni? Perse il lavoro. Sopravvisse riparando biciclette e facendo il ciabattino a San Lorenzo e a Testaccio. Il 19 novembre 1961 morì solo come un cane nella sua stanza in subaffitto di lungotevere degli Artigiani 30. Brydges restò libero. E, ancora oggi, per molti il serial killer di bimbe povere resta lui, «l'immondo» Gino. Chi ha almeno cinquant'anni lo ricorda bene. Se facevi commenti su una ragazza molto più giovane di te, scattava immediata la domanda gonfia di sarcasmo: «Ma che sei Girolimoni?». Un cognome usato come sinonimo di mostro, per deridere, offendere o semplicemente come scherzoso paradosso. Eppure Gino Girolimoni, accusato di aver ucciso quattro bambine e avere abusato di altre due nei quartieri popolari della città eterna fra il 1924 e il 1927, era innocente. Le prove a suo carico vennero spazzate via come castelli di carta dal vento delle prime verifiche. Contro di lui non si riuscì neanche a imbastire il processo: venne prosciolto nel 1928. Ma il sospetto lo corrose, divorò la sua esistenza e, alla fine, lo uccise. E la verità giudiziaria non trionfò mai su quella custodita dall'immaginario collettivo: essere «un Girolimoni» continuò ad equivalere a «depravato» e a indicare un pedofilo. Tutto ha inizio il pomeriggio del 31 marzo 1924. Sono le 18. Emma Giacomini, 4 anni e mezzo, e il fratellino di due stanno giocando sotto gli occhi della bambinaia nei giardini di piazza Cavour. Un attimo di distrazione e la donna perde di vista i piccoli. Scattano le ricerche. Ma i due sono scomparsi. Emma verrà trovata due ore più tardi in un orto nei pressi di piazzale Clodio. Una signora sente dei lamenti nel buio e scopre la bambina sotto shock, che tiene in mano le sue mutandine. Stretto forte intorno al collo ha un fazzoletto a sfondo grigio-verde. Il fratellino era stato abbandonato davanti a un cinema di piazza Cola di Rienzo: «Un signore - racconta il piccolo - ci ha portati in un caffè, ci ha offerto delle paste e dei cioccolatini. Era gentile. Poi mi ha lasciato davanti al cinema ed è andato via con mia sorella». Emma aveva contusioni ed escoriazioni ai genitali e al collo ma non era stata stuprata. Qualcuno o qualcosa aveva disturbato il suo assalitore, descritto dai testimoni come un uomo oltre i 50, snello, il viso scarno, alto circa 1,70, addosso un cappotto scuro e un cappello nero. È il debutto del pedofilo-killer. Trascorrono più di due mesi. Verso le otto di sera del 4 giugno, Bianca Carlieri, tre anni e otto mesi, detta «la biocchetta» per la sua mansuetudine e per una menomazione alla mano, sta giocando tra via del Gonfalone, dove abita, e via Giulia. Un signore alto, con un soprabito grigio, le promette delle caramelle e la porta via con sé. Il suo corpo violato e privo di vita sarà scoperto la mattina seguente da una donna che raccoglie la cicoria vicino alla basilica di San Paolo, lungo la ferrovia. L'autopsia conferma che la bambina ha ano e vagina lacerati e «sanguinolenti» e tracce di soffocamento. Ma non è finita. Alle 15,30 del 24 novembre Rosina Pelli, due anni e mezzo non ancora compiuti, viene prelevata da un uomo con un paletot marrone sotto al braccio mentre gioca con le sorelline in piazza San Pietro, non lontano da dove vive con i genitori. La mattina del giorno seguente il suo cadavere seminudo e brutalmente violato viene scoperto da un fornaio sul «prataccio» della Balduina. Ha «vastissime lacerazioni ai gentiali», recita l'esame autoptico. Ai funerali di Rosina partecipano oltre centomila persone, che chiedono vendetta. Nei rioni poveri della città è ormai psicosi. L'opinione pubblica vuole un colpevole. La fascistizzazione dell'informazione è già in atto. E, in un Paese che si sta preparando alla dittatura mussoliniana, l'ordine pubblico è «un imperativo»: non si può tollerare che il «mostro» sia ancora libero. L'enfasi, quindi, è enorme. La pressione sugli investigatori cresce a dismisura. Il maniaco se ne infischia. E colpisce di nuovo. All'alba del 31 maggio 1925 un netturbino scopre sulle sponde del fiume, all'altezza del lungotevere Gianicolense, il corpo martoriato di Elsa Berni, sei anni, scomparsa la sera prima mentre è davanti alla sua abitazione di Borgo. Arriviamo al 13 marzo 1927. Armanda Leonardi viene trovata morta sotto una coperta in un prato dell'Aventino. Anche lei mezza nuda. Insanguinata. Anche in questo caso il decesso è avvenuto per strangolamento. Anche lei aveva vissuto solo sei primavere. La sera prima giocava sotto casa, al rione Ponte. Ma l'Ombra se l'era portata via. Il 9 maggio l'agenzia Stefani dà il grande annuncio: il «mostro» è stato catturato, l'incubo è finito. All'inizio di aprile una «servetta di casa», Olga, tredicenne, rivela al suo padreone, l'ingegnere Dante Pacciarini, che un uomo le fa il filo. Pacciarini, attende che lo sconosciuto si rifaccia vivo. Quando succede, annota i numeri di targa della sua Peugeot verde e informa la polizia. Quell'auto è di Gino Girolimoni, 38 anni, un fotografo che si occupa di infortunistica e ha una stanza in via Boezio, non lontano dai luoghi di alcuni dei «fattacci». A parte quelle testimoniali (stimolate da una taglia di 50 mila lire), che poi cadranno come frutti maturi dall'albero, le prove elencate dalla Questura contro di lui oggi farebbero ridere. Un esempio? Nell'armadio aveva 12 abiti, segno che era un «trasformista» e usava quei vestiti per colpire e sfuggire alla polizia. Ma Girolimoni non ride. Lo spingono in tutti i modi a confessare. Ma «l'immondo essere», come viene definito dalla stampa, non confessa. Finisce in isolamento a Regina Coeli per quattro mesi. Ma continua a professarsi innocente. E nessuno gli crede. Lombroso docet: «Ha due occhi stranissimi, dal taglio quasi mongoloico; lo sguardo è obliquo, falso, sfuggente», scrive «L'Impero». L'assassino ha i baffi e Girolimoni non li ha mai avuti? Non importa. Se li è tagliati apposta. Non è vero, ma non importa. Addirittura gli si attribuiscono altri delitti, come l'omicidio di uma bimba a Padova nel 1919. Per fortuna c'è un giudice anche a Roma e, l'8 marzo 1928, Gino Girolimoni viene prosciolto «per non aver commesso il fatto». Durante la sua carcerazione, il commissario Giuseppe Dosi ottenne la riapertura del caso. Il regime, però, aveva già un suo colpevole perfetto. E lo sforzo di Dosi venne «premiato» con l'arresto e l'internamento per diciassette mesi in un manicomio criminale. Anche perché Dosi aveva individuato un altro possibile «mostro»: Ralph Lyonel Brydges, pastore protestante alla Holy Trinity Church di via Romagna. Il religoso era stato fermato a Capri per aver adescato una bambina di sette anni. Sicuramente era un pedofilo e, secondo il commissario, anche l'assassino delle piccole romane. Però era inglese e Mussolini voleva mantenere buoni rapporti con il Regno Unito. E Girolimoni? Perse il lavoro. Sopravvisse riparando biciclette e facendo il ciabattino a San Lorenzo e a Testaccio. Il 19 novembre 1961 morì solo come un cane nella sua stanza in subaffitto di lungotevere degli Artigiani 30. Brydges restò libero. E, ancora oggi, per molti il serial killer di bimbe povere resta lui, «l'immondo» Gino.

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